Serge Latouche, Il Sole-24 Ore 24/1/2010;, 24 gennaio 2010
BASTA CON L’OSSESSIONE DA CRESCITA
Tutti conoscono la famosa formula di Marx: «L’anatomia dell’uomo è la chiave di quella della scimmia». la formula che ha giustificato la lettura strutturalista del Capitale da parte di Althusser e che proprio per questo io ho lungamente discusso e criticato nel mio primo libro (non tradotto in italiano), pistémologie et économie. Essai sur une anthropologie sociale freudo- marxiste ( 1973).
La critica marxista del capitalismoe della modernità è viziata da una terribile ambiguità. Si tratta di quello che potremmo chiamare il paradosso produttivista. L’economia capitalistica viene criticata e denunciata, ma la crescita delle forze che scatena viene sempre qualificata dalla tradizione marxista come «produttiva» (mentre quelle forze sono quanto meno nella stessa misura, e anzi maggiormente, distruttive). L’interpretazione tipicamente schumpeteriana di Marx secondo la quale la crescita è distruzione creatrice, dimentica il fatto che le forze distruttive alla fine hanno il sopravvento sulle forze produttive. Con il capitalismo si assiste piuttosto a un processo di creazione distruttrice. Già Charles Péguy osservava: « addirittura uno spettacolo divertente vedere come i nostri sociali-sti anticristiani, e in particolare anticattolici, indifferenti alla contraddizione, incensino lo stesso mondo definendolo moderno e lo fustighino chiamandolo borghese e capitalista ». In sostanza, questa crescita, vista sotto l’angolo della produzione/occupazione/ consumo viene accreditata di tutti i benefici o quasi,mentre vista sotto l’angolo dell’accumulazione del capitale viene giudicata responsabile di tutti i flagelli: la proletarizzazione dei lavoratori, il loro sfruttamento, la loro pauperizzazione, senza parlare dell’imperialismo, delle guerre, delle crisi (comprese ovviamente quelle ecologiche) eccetera. Il cambiamento dei rapporti di produzione (in cui consiste la rivoluzione necessaria e auspicata) in questo modo si vede ridotto a uno sconvolgimento più o meno violento della posizione dei diversi soggetti nella ripartizione dei frutti della crescita. Di conseguenza, si può mettere in causa il contenuto della crescita, ma non il suo principio. Nei paesi del Sud, in particolare, il marxismo è servito a giustificare l’accumulazione del capitale nella forma più brutale, a cui è stato dato il nome di strategia di sviluppo (con l’aggiunta, è vero, dell’aggettivo socialista?).
Non è un caso che la decrescita abbia origine nella critica dello sviluppo e della crescita portata avanti, attorno a Ivan Illich, da una piccola internazionale di pensatori del Sud o che hanno avuto un’esperienza concreta del fallimento dello sviluppo nei paesi dell’Africa o dell’America Latina. La rottura con il marxismo su questo punto ha richiesto molto tempo ma è radicale. Una prima tappa culturale è stata il rifiuto del produttivismo come matrice culturale universale ( in parole povere l’occidentalizzazione del mondo), con il relativo culto delle forze produttive e dell’accumulazione del capitale in un contesto che non sarebbe più capitalistico. Una seconda tappa, più ecologica, corrisponde alla critica della visione prometeica del marxismo. Mentre il primo socialismo, quello dei William Morris, dei Cabet e anche dei Fourier, metteva in discussione l’industrialismo, il marxismo adotta il paradigma cartesiano dell’uomo padrone e dominatore della natura, la ybris dell’illimitatezza consumistica e del mito dell’abbondanza materiale. Se si vuole, si tratta della negazione della seconda legge della termodinamica.
Questo paradosso produttivista non è estraneo all’ambiguità della critica dell’economia politica di Marx. Marx sviluppa con incomparabile talento una critica radicale del naturalismo dell’economia di Ricardo, la cui logica conseguenza sarebbe una fuoriuscita dall’economia, ma questa fuoriuscita abortisce in mancanza di una decostruzione dell’economico.L’economia viene criticata come ideologia, mai come pratica simbolica. Ma i due significati della parola economia (l’economia come teoria e l’economia come pratica sociale) sono fondamentalmente indissociabili ( anche se vanno distinti ad alcuni stadi del ragionamento). La stessa ambiguità si ritrova d’altronde anche in Polanyi (come sottolinea Louis Dumont), con la sua distinzione tra un’economia sostanziale che costituirebbe uno zoccolo universale e trans-storico e un’economia formale che riguarderebbe unicamente il calcolo economico legato alla razionalità capitalistica. La nostra operazione è invece più radicale e valorizza la rottura generata dal crepuscolo dell’economia, che si manifesta con l’esaurimento delle significazioni immaginarie fondatrici dell’epoché economica.
Uscire dall’economia significa chiaramente uscire dal capitalismo e rompere con l’occidentalizzazione del mondo. Si tratta di un cambiamento di civiltà, né più né meno.
Sicuramente, la radicalità teorica non esclude l’accettazione di compromessi pratici. Per esempio, la società della decrescita, e comunque quella che potrebbe scaturire dalla situazione attuale (ma anche, nel caso di una catastrofe, dalla rovina o dalle macerie della società dei consumi) non abolirà necessariamente né il denaro, né i mercati e neppure il lavoro salariato. Ma al tempo stesso non sarà più una società dominata dal denaro, una società del mercato totale, una società salariale. Senza aver soppresso formalmente la proprietà privata dei mezzi di produzione e tanto meno il capitalismo, sarà una società sempre meno capitalistica in quanto sarà riuscita ad abolire lo spirito del capitalismo e in particolare l’ossessione della crescita (e non solo dei profitti).