Antonio Quaglio, Il Sole-24 Ore 24/1/2010;, 24 gennaio 2010
SMITH, LO SCOZZESE CHE IN NOI
Altro che Nobel o Uomo dell’Anno. Adam Smith e la sua Ricchezza delle nazioni tenevano banco sulla copertina di «Time» ancora due secoli dopo. «Come la grande nazione americana ”annotava solennemente il magazine nell’estate ’75 – il sistema economico conosciuto come capitalismo sta approssimandosi al suo bicentenario». Le 1.097 pagine pubblicate nel 1776 dal filosofo- economista di Edimburgo apparivano – e rimangono – un milestone:
«La prima descrizione organica al mondo di un’economia libera, nella quale le spinte di milioni di individui verso il profitto personale, collidendo tra loro in un mercato privo di vincoli, avrebbero prodotto "universale opulenza fino ai livelli più bassi della popolazione"». Una vera «dichiarazione di indipendenza», coincisa con il decollo epocale del Pil globale.«Eppure’ rimuginava comprensibilmente "Time" nel mezzo degli shock petroliferi ”gli eredi di quella rivoluzione non possono celebrarne la vittoria. Sempre di più, sia i sostenitori sia i critici si chiedono: può sopravvivere il capitalismo?».
Can capitalism survive? Quel titolone di «Time » è tornato a risuonare più di trent’anni dopo, quando la crisi finanziaria è deflagrata con il dissesto di Northern Rock: una banca di Newcastle, la stessa factory town citata nelle prime pagine della Ricchezza . Ma il mito di Smith, le sue parole d’ordine, gli scorci più riusciti del suo affresco hanno intanto superato senza danni apparenti anche il giro di boa del XXI secolo. Già all’indomani della caduta del muro di Berlino, Edward Yardeni – chief-economist alla Prudential Bache – diffondeva tra analisti e gestori di una lanciatissima City londinese un report
inequivocabile: Il trionfo di Adam Smith.
Intraprendente ma oculato, individualista ma mai irresponsabile, l’originario homo oeconomicus
della Ricchezza conserva il suo fascino. «lo scozzese che Smith pensava fosse dentro tutti noi», ripeteva il guru vittoriano Walter Bagheot. agitando la «mano invisibile» di Smith che Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno preso di petto lo statalismo del dopoguerra e la stagflazione degli anni 70, innescando nei mercati finanziari il big bang della globalizzazione (certo: gettando le basi anche del loro successivo collasso). ripartendo dalla «parabola degli spilli» – alle radici della riorganizzazione industriale del lavoro – che la Cina pauperista del maoismo è via via diventata una «nazione ricca» e forse diventerà la più ricca e potente di tutte le nazioni (anche se è vero che a Pechino le libertà economiche e civili smithiane non sono ancora di casa e quel capitalismo è ancora animato più dai tecnocrati che dagli imprenditori).
Non da ultimo, la famosa «etica del birraio » ha posto la tesi intellettuale e sociopolitica cui hanno risposto il Capitale e il
Manifesto marxiani. A metà del ’700 – tra la rivoluzione inglese e quella francese – Smith annuncia forte e chiaro che sono le imprese capitaliste e concorrenziali a produrre «la ricchezza delle nazioni» (cioè «ricchezza per tutta la nazione», per i re «improduttivi» e per tutti gli abitanti del regno). E il self-interest di un vero imprenditore, secondo Smith, alla fine non può che generare «bene comune». Nei parlamenti e nelle fabbriche, nelle accademie e nelle piazze ( e anche nelle chiese) la questione non è ancora stata dichiarata risolta od obsoleta.
«Adam Smith va sempre riletto, come ogni generazione rilegge Dante o Shakespeare», dice Luigi Campiglio, prorettore dell’Università Cattolica.«Nella Ricchezza c’è un’intera antropologia economica» e anche per gli addetti ai lavori, sottolinea Campiglio, farebbero male a relegarla tra i classici storici. «Grandi costruzioni recenti, penso ad esempio ai modelli sulle imperfezione dei mercati e sulle asimmetrie informative, stanno benissimo dentro l’originaria cornice analitica smithiana».
«Riaprire la Ricchezza? Bene, ma è meglio approfittarne per leggere prima o assieme – quasi nessuno lo fa – la Teoria dei sentimenti morali. Il grande racconto ragionato dell’economia di allora è più interessante ancora se arricchito delle originali notazioni etico-sociali del filosofo Smith». Il consiglio è di Gianni Toniolo, professore di storia economica alla Luiss e alla Duke University. Il quale avverte: «Smith non va banalizzato come il semplice aedo di tutte le virtù di un mercato senza regole. Non vi è in Smith l’idea che il mercato sia uno "stato di natura", ma piuttosto il frutto di istituzioni e regole adeguate ». E il suo lavoro intellettuale «va inquadrato nel contesto intellettuale e storico del tempo: Smith scrive in polemica con il pensiero mercantilista allora dominante, e con il ruolo totalizzante dello stato in economia».
Concorda il presidente della «Adam Smith Society» italiana, Alessandro De Nicola: «La libertà economica di Smith – rammenta – nasce irriducibilmente dal singolo, non dal legislatore come immaginava Montesquieu ». La Ricchezza è trasparente: « evidente che ognuno, nella sua condizione loca-le, può giudicare meglio di qualsiasi uomo di stato quale sia la specie di industria interna che il suo capitale puà impiegare».
Ma il padre fondatore dell’economia politica merita davvero il suo posto nel pantheon ? «Quella di Smith è ancora una visione sostanzialmente statica dell’economia – sottolinea Toniolo – Quando Smith scriveva la rivoluzione industriale era agli albori ed è dunque comprensibile che egli non abbia messo a fuoco tutti i suoi fermenti. Solo a partire da David Ricardo, cioè dalla generazione di economisti successiva a quella di Smith, inizia un abbozzo di teoria dello sviluppo economico ». Lo pensa anche Giulio Sapelli, storico economico alla Statale di Milano. Si è formato sui libri di Pietro Sraffa e quindi di Ricardo, ma ha letto fin da giovane tutta la Ricchezza : «In inglese ”ricorda ”appena entrato all’ufficio studi Olivetti ». La Ricchezza , con tutta evidenza, non ha la forza delle sintesi teoriche operate dagli altri classici, dai neoclassici, da uno Schumpeter o da un Keynes: ma ha la sicura attrattiva di «un pensiero semplice e stringente». Il «libero mercato» a Smith non appare un’utopia quale si è poi rivelata solo perché la matrice oligopolistica attendeva ancora di emergere nel capitalismo evoluto.
Di quel modest man named Smith (come recita il bel profilo "ufficiale" del sito adamsmith. org) il mondo, comunque, non si libererà facilmente. Nel 1971, all’indomani dell’assegnazione del primo Nobel per l’economia, un pensatore poliedrico come Kenneth Boulding si chiedeva: «Dopo Samuelson chi ha bisogno di Adam Smith?». Lo ricorda l’economista statunitense Jonathan Wight in una monografia di oltre trecento pagine, edita dal Financial Times nel 2002 e intitolata Saving Adam Smith. In economia toglieteci tutto, ma non mister Smith • All’origine della ricchezza c’è il prodotto del lavoro delle nazioni
1 «Il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui originariamente provengono tutti i mezzi di sussistenza e di comodo che essa annualmente consuma, e che sempre consistono del prodotto diretto del lavoro o di ciò che con esso viene acquistato da altre nazioni. A seconda, quindi, che questo prodotto o ciò che si acquista con esso sia in proporzione maggiore o minore al numero di coloro che lo consumano, la nazione sarà provvista in modo più o meno abbondante dei mezzi di sussistenza e di comodo che le occorrono» • La parabola degli spilli: impresa e organizzazione
1 «Io ho visto una piccola manifattura dove erano impiegati soltanto dieci uomini e dove alcuni di loro, di conseguenza, compivano dueo tre operazioni distinte. Ma, sebbene fossero molto poveri e perciò solo mediocremente dotati dei macchinari necessari, erano in grado, quando ci si mettevano, di fabbricare, fra tutti, più di quarantottomila spilli al giorno. Si può dunque considerare che ogni persona, facendo la decima parte di quarantottomila, fabbricasse quattromilaottocento spilli al giorno. Se invece avessero lavorato tutti in modo separatoe indipendente e senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli per ciascuno» •
L’acqua e i diamanti: sul mercato conta il valore di scambio
1 « Le cose che hanno il maggior valore d’uso hanno spesso pocoo nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno maggior valore di scambio hanno spesso poco o nessun valore d’uso. Nulla è più utile dell’acqua,ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente se ne può avere qualcosa in cambio.
Un diamante, al contrario, ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni» • La mano invisibile che guida l’economia: il capitale, il profitto e l’equilibrio
1 «A parità o quasi di profitti ogni individuoè naturalmente incline a impiegare il suo capitale in modo tale che offra probabilmente il massimo sostegno all’attività produttiva interna e dia un reddito e un’occupazione al massimo numero di persone del suo paese.
Quando preferisce il sostegno all’attività produttiva del suo paese egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni» • Il birraio e il suo cliente: l’interesse e l’utilità
1 «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio, che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo, non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza».