Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 19/01/2010, 19 gennaio 2010
GANDHI E I MUSULMANI UN PAESE NATO NEL SANGUE
Persino Gandhi fallì con l’ Islam. Lei che ne pensa? Stefano Zanella patrizani@ libero.it
Caro Zanella, Gandhi previde sin dalla fine della Seconda guerra mondiale che le province musulmane non avrebbero accettato di far parte dell’ Unione indiana. Ma aveva compreso meglio di altri quanto sarebbe stato difficile tracciare una frontiera fra due Paesi e combatté la scissione con tutte le sue forze. Esistevano province in cui la maggioranza era chiaramente indù e altre in cui era musulmana. Ma esistevano anche province in cui i rapporti demografici tra le due maggiori comunità religiose del Paese erano difficilmente accertabili o addirittura prossimi alla parità. Che cosa sarebbe accaduto di queste ultime? Nei lunghi negoziati che precedettero la proclamazione dell’indipendenza il governo britannico aveva cercato di disinnescare la bomba della scissione chiedendo ai maggiori interlocutori - il partito del Congresso di Jawaharlal Nehru e la Lega musulmana di Muhammad Ali Jinnah - di affrontare e concordare anzitutto lo statuto delle minoranze. Londra sperava che un buon accordo avrebbe tranquillizzato gli animi e favorito l’ unità del subcontinente. Ma il partito del Congresso si oppose sostenendo che la priorità era l’indipendenza e che ogni altra questione sarebbe stata trattata successivamente. Il nodo venne al pettine quando il governo propose la costituzione di un’Assemblea costituente in cui tutti i gruppi nazional-religiosi avrebbero avuto una rappresentanza corrispondente alla loro consistenza demografica. Il Congresso accettò di farne parte, ma pose condizioni che i musulmani non ritennero di poter accogliere. Temevano che la maggioranza indù avrebbe imposto la sua volontà ed esitavano a entrare in una istituzione nella quale avrebbero avuto un peso modesto. Fu quello il momento in cui Jinnah decise di agire dall’ esterno e cercò di mobilitare l’ opinione pubblica musulmana con una giornata di «azione diretta»: una pessima iniziativa che provocò una sanguinosa caccia all’ indù nelle zone musulmane di Calcutta. Secondo Giorgio Borsa, autore di una biografia di Gandhi apparsa nel 1983 presso Bompiani, vi furono, nei quattro giorni dei massacri, 4000 morti e 10.000 feriti. La Gran Bretagna, dal canto suo, dette un involontario contributo alla secessione. Dopo avere annunciato che se ne sarebbe andata dall’ India, comunque, nel giugno del 1948, decise di anticipare la partenza al 1947. Il governo di Londra sperava che l’ indicazione di una data avrebbe persuaso indù e musulmani a trovare un accordo nell’ ambito dell’Assemblea costituente. Ma la decisione ebbe l’ effetto opposto e mise in moto una inarrestabile reazione a catena. Nelle singole province vi furono pronunciamenti, plebisciti, colpi di mano, scontri fra maggioranze e minoranze, tragici esodi di popolazioni indù e musulmane che cercavano di raggiungere le zone prevalentemente abitate dai loro fratelli in religione ed erano spesso costrette ad attraversare territori ostili. Gandhi cercò di opporsi con tutte le sue forze alla tragedia e trascorse gli ultimi giorni della sua vita, per meglio manifestare i propri sentimenti, nella casa di un amico musulmano a Calcutta. Proclamò uno sciopero della fame e si trasferì a Delhi dove, come racconta Borsa, i profughi indù del Punjab stavano facendo ai musulmani ciò che questi avevano fatto agli indù nelle strade di Calcutta. Debole e affranto, non rinunciava tuttavia alle sue passeggiate. La sera del 30 gennaio 1948, mentre camminava lentamente sostenuto da due giovani donne, un uomo s’inchinò al suo passaggio ed esplose contro di lui un colpo di pistola. Era un indù, membro di una organizzazione militare per cui Gandhi era troppo filo-musulmano. Come vede, caro Zanella, il confine tra le responsabilità degli uni e degli altri è, come fu quello tra il Pakistan e l’India, difficile da tracciare.
Sergio Romano