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 2010  gennaio 19 Martedì calendario

SIMONIS: ARTEMIDORO SONO IO - C’ è

un dato materiale che condanna il famigerato Papiro di Artemidoro ad essere «moderno», quantunque si pretenda di datarlo nel primo secolo (avanti o dopo Cristo, a piacer vostro): la presenza di «una polvere finissima di grafite» nell’ inchiostro con cui è stato scritto il testo. inutile sofisticare sulle parole, trattandosi di materiale ignoto agli antichi e affiorato all’ uso moderno a partire dal tardo Medioevo. Questo è il dato di fatto. In un lavoro di prossima pubblicazione sarà mostrato come solo un inchiostro contenente grafite avrebbe potuto produrre così nitide impronte per contatto, come si vede nell’ «Artemidoro». Dunque siamo di fronte all’ opera di un falsario. Perché nell’ identificare il falsario che ha fatto ciò, adottando per giunta una grafia greca «che non trova riscontri» (si veda la prima edizione parziale, «Archiv für Papyrusforschung». 1998), si è portati a pensare a Costantino Simonidis (circa 1820-1890)? Le ragioni culturali e linguistiche che portano a lui sono state ampiamente illustrate in questi anni ed è forse superfluo ripeterle (una sintesi in: Il papiro di Artemidoro, Laterza 2008). Ma vi è quasi una sua «firma». Egli scrisse infatti una specie di resoconto autobiografico e lo incluse in una rarissima pubblicazione litografata ad Odessa nel 1854. Qui egli ha voluto inserire un lungo frammento di Artemidoro che trovava nell’ amatissimo Strabone: in tal modo attribuiva, incredibilmente, a se stesso il periplo del Mar Rosso (e relative tappe) che Artemidoro sosteneva di aver compiuto! Insomma si identificava con Artemidoro. Il bello è che, poco oltre, nello stesso libro di Strabone, egli si imbatteva nella descrizione artemidorea di animali più o meno fantastici: e noi li ritroviamo, vedi caso, sul verso del cosiddetto «papiro di Artemidoro»! Ed è dai primi righi di Strabone che il falsario ha ricavato il pensierino che ha incastonato - insieme con le prime frasi della Geografia di Carl Ritter - nei primi righi del suo «proemio»: «Sono pronto a sostenere che la geografia va posta accanto alla divinissima filosofia». Ma, ovviamente, non l’ ha motivato come Strabone, bensì con un contorto ragionamento che culmina nella autolesionistica trovata delle «armi mescolate» che la geografia (o, a piacer vostro, la filosofia) recherebbe «addosso, intorno al proprio corpo» (perì heautèn). Espressione, quest’ ultima (armi mescolate), inesistente nella lingua greca e ricavata, invece, di peso dalle lingue moderne: dal tedesco e dal francese. «Armi mescolate» (memeigmèna hòpla), mentre non appare mai in greco quantunque si disponga di molte migliaia di pagine in tale lingua e in un arco di tempo che va dall’ VIII a. C. al XVI secolo d. C. (un «campione» di 24 secoli non è male), ricorre invece svariate centinaia di volte in lingua tedesca (nelle due forme mit vermischten, ovvero gemischten, Waffen) e altrettanto frequentemente in francese (armes mêlées ovvero mélangées). La storia si ripete (e la seconda volta è farsa, fu detto da un mordace rivoluzionario). E infatti siamo di fronte al medesimo incidente che travolse il pur ben congegnato palinsesto della Storia egizia di Uranio, inventata di sana pianta da Simonidis, falsario insigne e temuto, e da lui offerta all’ Accademia delle Scienze di Berlino nel 1855. Egli ebbe la debolezza di introdurre, anche in quel caso, nel proemio di tale sua creazione che pretendeva di apparire come un prezioso testo greco recuperato per la delizia dei moderni, un’ espressione che voleva significare «secondo me»: scrisse kat’ emèn idéan. Espressione che in greco non esiste, non è mai esistita, ma che gli era sgorgata dalla penna grazie alla familiarità con le lingue moderne: à mon idée, à mon sentiment e simili. Fu un disastro. In tempi in cui la conoscenza del greco e il senso dello stile erano più in auge che non al tempo nostro bastò questo per chiudere la questione. Orbene, la domanda che si impone è: come non ritenere risibile l’ idea che un medesimo rotolo di papiro possa contenere un brano che si rivela scritto da un moderno e, al tempo stesso, un paio di colonne di un «antico»? Già solo il pensarlo fa un certo senso. L’ unica possibilità seria è che il moderno autore abbia confezionato il tutto spigolando tra fonti antiche. Vediamo come. Il famigerato testo è composto di cinque colonne di scrittura: tre dovrebbero contenere un proemio (anzi il proemio) confusamente inneggiante al mestiere del geografo, le altre due il periplo della Spagna «in epitome». In verità una nuova ricerca ha appena dimostrato con argomenti oggettivi che la successione delle colonne è stata restituita in modo errato e che il cosiddetto proemio, dovendosi per lo meno collocare dopo il periplo, cesserebbe di essere un proemio. Il fatto è che, comunque lo si voglia chiamare, codesto farneticante testo (che si vuol presentare come proemiale), contiene un bizzarro miscuglio di greco monastico, tardobizantino, neogreco, ed espressioni cavate da lingue moderne. Quanto alle colonne IV e V, esse non sono che un collage di fonti antiche, soprattutto Stefano di Bisanzio e Marciano di Eraclea (vissuti tra Diocleziano e Giustiniano). Il falsario le ha cucite insieme, commettendo tra l’ altro l’ ingenuità di ereditare alcuni difetti ed errori presenti nelle moderne edizioni degli autori da cui spigolava; e aggiungendovi un anacronismo, là dove fa dire ad Artemidoro che al tempo suo i Romani occupavano «tutta la Lusitania». comprensibile che costui abbia voluto attingere, tra l’ altro, all’ opera geografica di Marciano di Eraclea (nella IV colonna ne ha ricopiato quasi alla lettera un po’ di righi), giacché Marciano era noto per aver compilato una Epitome (riassunto) della Geografia di Artemidoro. E per giunta nella superstite opera di Marciano c’ era un mezzo periplo della Spagna: la parte cioè della Spagna che si affaccia sull’ Oceano Atlantico. Di conseguenza è accaduto che, nel «periplo» della Spagna contenuto nelle colonne IV e V del papiro, la costa mediterranea viene toccata appena (soltanto tre toponimi stranoti) mentre la costa atlantica, grazie a Marciano, è molto più dettagliatamente descritta. Povero Simonidis! Qualcuno dei suoi stretti amici (complici e protettori) gli avrà forse suggerito di lasciar perdere: che un testo pazzesco misto di parole non sempre sensate e di disegni stravaganti era impresentabile. Pretendere che questo «pasticcio» (nel senso gastronomico) sia antico e autentico appellandosi alle papiracee «fratture verticali» fa pena. Un antico detto siculo recita: chi è più ridicolo, carnevale o chi va dietro a carnevale?
Canfora Luciano