Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 18/01/2010, 18 gennaio 2010
USA NELLA GRANDE GUERRA UNA VITTORIA MAL CAPITA
La vulgata secondo cui l’ intervento americano avrebbe impedito la vittoria degli Imperi Centrali appartiene al mondo dell’ approssimazione storica. Si cita infatti l’ intervento come decisivo per le sorti della guerra. Su questo tema gli storici hanno dato interpretazioni diverse, spesso contrastanti. invece incontrovertibile che gli Imperi Centrali si sfaldarono dall’ interno e lasciarono molti territori nell’ anarchia, prede facili delle mire territoriali altrui, nel caso specifico il Regno d’ Italia, che ne seppe approfittare. Sulle ragioni di questa decisione di geo-politica molto si è scritto, ma nuovamente, le voci dissentono e dibattono. Forse dovremmo imparare a vedere i fatti storici nella loro complessità riservando i rimpianti alle pur nobilissime e assai utili pubblicazioni letterarie. Alessandro Mensi , Brescia
Caro Mensi, Sul piano strettamente militare il ruolo degli Stati Uniti nella Grande guerra non fu determinante. Quando il presidente Wilson decise l’ intervento, il Paese non era preparato all’ invio in Europa di un consistente corpo di spedizione. Fu necessario fare approvare dal Congresso una sorta di servizio militare obbligatorio (il Selective Service Act del 18 maggio 1917) e chiedere all’ industria di fornire alle Forze armate le attrezzature e l’ armamento di cui, sino a quel momento, non disponevano. Nella sua Storia degli Stati Uniti (Bompiani, 1984) Maldwin A. Jones ricorda che le prime truppe americane giunte in zona d’ operazioni (circa 300.000 uomini nel marzo del 1918) dovettero combattere con artiglieria francese e volare con aerei di fabbricazione francese o inglese. Gli Alleati volevano inserire i corpi americani nelle unità che avevano maggiormente bisogno di essere rafforzate, ma il generale John A. Pershing, comandante del corpo di spedizione, volle un settore del fronte e pretese di gestire autonomamente le operazioni. Le sue truppe parteciparono alla difesa contro l’ ultima offensiva tedesca nel marzo del 1918 e, in settembre, nel quadro di una generale controffensiva alleata, attaccarono nel settore della Mosa e delle Argonne. La battaglia durò 47 giorni, impegnò un milione e 200.000 soldati americani e fu, secondo Jones, la più grande, sino a quel momento, della storia militare degli Stati Uniti. Contribuì a convincere i tedeschi che la presenza di un nuovo nemico aveva modificato gli equilibri del conflitto. Ma lo sforzo decisivo e determinante, beninteso, fu quello dei Paesi che avevano combattuto sin dal 1914 o, come nel caso dell’ Italia, dal 1915. Il quadro non sarebbe completo, tuttavia, se non riconoscessimo che l’ intervento degli Uniti Stati ebbe una considerevole importanza psicologica. Rinfrancò gli Alleati, mise in campo complessivamente quasi cinque milioni di uomini e dimostrò al mondo quale fosse la potenza della macchina industriale americana. Aggiungiamo a questi fattori l’ importanza dei prestiti americani alle nazioni alleate e capiremo meglio perché il presidente Wilson sia stato in molte circostanze il protagonista del Trattati di Versailles. Anche per ragioni di orgoglio nazionale, molti Paesi, dopo la fine del conflitto, vollero credere che gli Stati Uniti avessero avuto nella vittoria del 1918 un ruolo marginale. Mussolini non si sarebbe affrettato a dichiarare guerra all’ America, dopo Pearl Harbor, se non avesse drammaticamente sottovalutato la sua importanza militare. Avrebbe dovuto dare retta a un grande imprenditore veneziano, Vittorio Cini, che visitò gli Stati Uniti prima della guerra per meglio organizzare l’ esposizione universale di Roma, prevista per il 1942. Per valutare il loro peso, disse al suo ritorno, basta dare un’ occhiata all’ elenco telefonico di New York.
Romano Sergio