Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  gennaio 21 Giovedì calendario

MATRIMONIO COMBINATO E RIUSCITO


Non mi associo al coro degli indignati perché i genitori della ragazza pachistana rapita le volevano combinare il matrimonio. Mi sono indignata molto, invece, per l’uso della violenza fatto per convincerla ad accettare la decisione familiare. E quindi non sono d’accordo con chi - come Carlo Panella sul Foglio - annovera il matrimonio combinato come delitto alla pari con le violenze perpetrate negli ultimi tempi contro chi era di altra religione, o affermava principi diversi da quelli della tradizione islamica.
Le ragioni di questa mia posizione stanno sicuramente nel mio mestiere - come storica so bene che la prassi dei matrimoni combinati dalle famiglie era normale nelle nostre società tradizionali, ed in alcuni strati sociali è durata fino a pochi decenni fa anche in Italia - ma anche nella mia esperienza personale.
Qualche anno fa la mia cameriera cingalese si è fatta sostituire dalla figlia più giovane, una deliziosa ventenne appena arrivata dallo Sri Lanka, dove era stata allevata dai nonni mentre i genitori erano emigrati in Italia con i figli maggiori. Mia figlia ed io divenimmo subito amiche della giovane, dolcissima e simpatica: l’aiutavamo a imparare l’italiano e la ascoltavamo quando, finito il lavoro, ci chiedeva il permesso di suonare un po’ al pianoforte. Un giorno la ragazza arrivò piangendo, dicendoci che sarebbe dovuta tornare in Sri Lanka per sposare un giovane scelto dalla famiglia. Mia figlia ed io elaborammo subito un piano di aiuto, pensando di offrirle casa nostra per sfuggire a questo destino, ma la giovane cingalese ci guardò stupita: lei piangeva all’idea di lasciare di nuovo i genitori, da poco ritrovati, e un po’ anche noi, ma del matrimonio era contentissima, pur non conoscendo lo sposo. Capimmo la ragione della sua contentezza quando ci mostrò la foto di un bellissimo ragazzo, che inoltre aveva già un lavoro sicuro e una casa. Mia figlia, ridendo, disse allora che se anche io le volevo combinare un matrimonio con un tipo simile non si sarebbe certo tirata indietro… Ci è venuta a trovare qualche anno dopo, nel corso di un viaggio in cui mostrava al marito l’Italia: aveva due bambini, era molto felice, e conoscemmo suo marito che, oltre che bello, era anche molto simpatico e la trattava con amore e gentilezza. Certo, non tutte le storie sono uguali, e ho il sospetto che i mariti pachistani siano meno gentili e rispettosi dei cingalesi, ma questo episodio mi ha fatto capire che il matrimonio combinato non era necessariamente una forma barbarica di tortura.
Del resto, anche nella mia famiglia piemontese, nella generazione dei miei genitori, c’erano stati dei matrimoni combinati per garantire, soprattutto, un miglioramento economico e sociale ai figli, e non mi sembra che fossero così diversi da quello dei miei genitori, conclamato matrimonio d’amore: erano coppie tranquille e normali, con figli amati, che si sono felicemente accompagnate fino alla vecchiaia.
Con questo non voglio fare l’elogio dei matrimoni combinati, né penso che per la ragazza pachistana ormai occidentalizzata fosse meglio adeguarsi alle richieste della famiglia. Ormai per noi è assolutamente inimmaginabile pensare di legittimare una costrizione di questo tipo. Ma penso che nelle famiglie degli immigrati sia normale che il salto di cultura provochi queste tensioni, come del resto è avvenuto anche per gli immigrati italiani negli Stati Uniti: il problema sta nelle misure prese per costringere la ragazza ad obbedire. Se la tensione e la ribellione si limitano ad un conflitto - anche se doloroso, come tutti i conflitti famigliari - fra le generazioni, ma poi la ragazza può seguire la sua strada e fare la sua scelta, non possiamo condannare i genitori, che pensavano, rispettando le tradizioni, di operare per il suo bene. Il problema nasce quando si arriva all’uso della violenza, se non addirittura dell’omicidio: è questo che deve essere oggetto della nostra condanna.
E allora dobbiamo avere il coraggio di dire che ci sono culture più violente di altre, culture in cui questo delicato passaggio alla modernizzazione rischia di diventare occasione di violenza, in genere esercitata dagli uomini sulle donne. Perché alle donne viene impedito di scegliere la loro vita, cioè viene impedito di fare quello che nella nostra società è considerato il bene sommo: esercitare la propria autonomia individuale.
Ma dobbiamo essere consapevoli che la libera scelta non conduce automaticamente alla felicità, e che si tratta di un dogma della nostra cultura, che può non essere condiviso da altre. Forse, se fossimo meno sprezzanti verso chi vuole combinare il matrimonio alla figlia, ma lo aiutassimo a capire le regole della nostra società, aiuteremmo qualche ragazza in più a raggiungere la libertà senza pagare un prezzo troppo alto.

Lucetta Scaraffia, Il Riformista 21/1/2010