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 2010  gennaio 17 Domenica calendario

IL BANCHIERE FIERO DI ESSERE UN «NEGRONE»

«Sono un negro e sono un bantu, chiaro?». Sì chiaro. Chiarissimo. Però Otto Bitjoka ti spiazza. Quando parli con lui devi dire addio al politicamente corretto e alle sottigliezze diplomatiche. Dice quello che pensa. E lo dice in un bellissimo italiano, anche ricercato. Giusto ogni tanto gli scappa qualche modo di dire milanese («Quella roba lì», «capito?»). Bitjoka ha 53 anni e vive in Italia dal 1976. nato in Camerun in una famiglia di etnia bantu. Ha studiato in Francia, si è laureato in Italia all’Università Cattolica, poi ha studiato anche alla Bocconi. Ha moglie italiana e un figlio di 23 anni laureato in Economia alla Cattolica. Il figlio segue le orme del padre, che ha costruito tutta la sua carriera professionale nel mondo dell’economia e della finanza.
Oggi Otto Bitjoka presiede la Fondazione Ethnoland (che sviluppa progetti per l’integrazione degli extracomunitari) ed è vicepresidente di Extrabanca, un nuovo istituto di credito già definito ”la banca degli immigrati”. Inoltre fa il consulente di varie aziende. Ha scritto un libro (Ci siamo, pubblicato da Sperling&Kupfer) sul futuro degli immigrati in Italia. animatore degli Stati generali dell’immigrazione. Da bravo milanese efficiente è in ufficio anche il sabato mattina.
Dottor Bitjoka, perché lei si definisce un negro e non un nero?
Perché sono negro, ho studiato la negritudine teorizzata da Senghor e da altri. Dicendo che sono negro e non nero, voglio affermare ciò che sono senza se e senza ma. L’uso del termine nero mi sembra solo pietismo e ruffianaggine. Anzi, sa che cosa le dico? Poiché sono un tipo robusto, io sono un negrone!
Che cosa significa essere un bantu?
Vuol dire essere fieri. Noi bantu siamo orgogliosi perché abbiamo combattuto contro la colonizzazione e contro l’uomo bianco. Siamo guerrieri, lo abbiamo nel nostro Dna. Diciamo tutto senza se e senza ma. Abbiamo la schiena dritta e i pensieri nobili. A volte affermo subito di essere bantu per mettere sul chi va là i miei interlocutori, così sanno con chi hanno a che fare.
Perché decise di venire in Italia?
Davvero non lo so. Me lo chiedono spesso, ma non so trovare una risposta. Io studiavo in Francia, a Grenoble. In Francia si stava bene e noi studenti africani consideravamo l’Italia la periferia d’Europa. Sa, ora gli italiani se la tirano, ma allora nessuno voleva venirci. Comunque, durante una vacanza venni a trovare un amico che viveva a Perugia. Mi sono innamorato della lingua. Un po’ studiai a Perugia, poi tornai in Francia, ero flessibile, mi adeguavo facilmente. Infine decisi di venire a Milano per studiare scienze economiche e bancarie. Allora c’erano due facoltà, alla Cattolica di Milano oppure a Siena. A Siena l’indirizzo del corso era troppo giuridico, perciò scelsi Milano. E qui mi sono fermato.
Allora come si stava a Milano?
Milano era bella. Si stava bene. Studiavo alla Cattolica e lavoravo al Savini, allora il più bel ristorante di Milano. Lavavo le pentole, ma avevo anche una borsa di studio e i soldi che mi mandavano i miei genitori. A ben pensarci non sono mai stato così bene come quando ero studente. I soldi non mi mancavano e il biglietto della metropolitana costava solo 300 lire.
E la gente come la trattava? In quegli anni ancora non si vedevano in giro tanti immigrati...
Guardi le racconto un paio di episodi. Un giorno andai a Solaro, allora un piccolo paese vicino Saronno. Ero andato alla Festa dell’Unità a trovare un amico ivoriano, la gente era curiosa, mi toccava i capelli, si stupiva. E io ero più stupito di loro, di queste robe qui. Ricordo che era una ragazza a toccarmi i capelli e pensai che magari mi tampinava perché cercava un ragazzo alternativo. Un’altra volta, a Milano, entrai in un bar con la borsa della palestra che frequentavo. Era la GetFit, una palestra fighetta per fighetti, modelle, gente del giro della moda. Quando il barista mi vide entrare con la borsa a tracolla mi disse che non voleva comprare niente. Capisce? Pensava che io fossi un vu’ cumprà. Mah, mi sono sempre stupito del provincialismo italiano, davvero non me lo spiego.
Finiti gli studi ha fatto fatica a trovare lavoro?
Scherza? Ho trovato lavoro subito. Ho avuto offerte ovunque, non era come oggi. Erano altri tempi, quando uscivi dalla Cattolica o dalla Bocconi eri già prenotato dalle aziende. Mi sono concesso anche il lusso di rifiutare un lavoro alla Snam, che mi aveva chiamato per un colloquio. Va anche detto che nelle università di allora c’erano poche facoltà di economia, oggi invece ci sono troppi indirizzi e non ci si capisce più niente.
Come sarà Extrabanca, la banca degli immigrati?
Ma guardi che sarà una banca commerciale come le altre. Non sarà una banca etica e neppure una banca solo per gli immigrati. Diciamo che guarderà con maggiore attenzione a quel target di mercato. Apriremo i primi sportelli a marzo.
Perché c’è bisogno di una banca più attenta agli immigrati?
Perché tanti extracomunitari ormai sono imprenditori. Ed è chiara la necessità di dare un mano a chi lascia il proprio paese per realizzarsi all’estero. Per fare questo il credito offre una chance. Un credito non solo di denaro, ma anche di fiducia.
Lei parla di fiducia, ma dopo i fatti di Rosarno sembra prevalere il pessimismo. Lei stesso ha scritto che il peggio deve ancora arrivare. Che peggio ci aspetta secondo lei?
Non lo so proprio. Ripeto che il peggio deve arrivare, ma non mi chieda quale sarà quel peggio. Non sono una paragnosta, ma intuisco un futuro poco incoraggiante da ciò che vedo.
E che cosa vede?
Vedo prima di tutto che in Italia manca il coraggio intellettuale di considerare l’immigrazione come una categoria della nostra contemporaneità. Altrove, penso alla Francia o alla Gran Bretagna, si è formata una borghesia postcoloniale di quarta o quinta generazione in grado di mediare i conflitti che noi stiamo vivendo. Qui non è successo. L’Italia ha colonizzato l’Albania, la Somalia, la Libia, l’Etiopia, l’Eritrea, ma tutto ciò che ha portato? Niente. In Italia manca la capacità di mediare i conflitti sociali, perché qui l’immigrazione viene percepita solo come una cosa straccionesca. Gli immigrati ricchi, che lavorano e fanno i soldi, non fanno notizia. La gente non li vede. Qui vedono l’immigrato solo come uno straccione. Si fa un gran calderone dove si mettono tutti.
Lei sostiene che sul tema dell’immigrazione il sindacato è stato assente, ha pure invocato l’arrivo di un nuovo Giuseppe Di Vittorio, che lei definisce «un uomo del popolo». Quali sono le colpe dei sindacato?
Un sindacato dovrebbe difendere il lavoratore indifferentemente dal fatto che abbia la tessera sindacale o meno, ma non lo ha fatto. Anche se poi a livello nazionale si ingrassa con le quote del tesseramento dei lavoratori immigrati.
E della politica italiana che cosa pensa?
La boccio tutta, sia la destra che la sinistra. La destra criminalizza gli immigrati alimentando l’industria della paura. Poi si costruisce il consenso proprio sulla paura. Non mi stupisco più di tanto, perché lo fanno tutte le destre. Da parte della sinistra non vedo proposte chiare. Forse anche perché parlare di immigrazione non crea consenso. Ma uno statista non deve badare solo al consenso, deve fare proposte chiare, dare prospettive e dare futuro. Deve pensare al progetto di una nuova società dove la mobilità globale e l’immigrazione siano considerate tendenze epocali imprescindibili.
In che rapporti è con la Lega?
Con i leghisti vorrei avere una dialettica di confronto, ci incontriamo nei convegni e negli studi televisivi ma non vedo un interlocutore, ancora lo cerco. Secondo me la Lega quello che dice non lo pensa. Dice certe cose perché sa che funzionano, ma poiché la Lega sa intercettare molto bene le istanze territoriali, potrebbe cambiare registro il giorno che l’immigrazione non sarà più un issue.
Resta la Chiesa, che per lei, credente, è «il meglio del peggio». In che senso?
La Chiesa è il meglio del peggio perché al suo interno si trova qualcuno con la coscienza nitida. Hanno un’idea chiara dell’escatologia, del giudizio ultimo e sanno che comunque devono rendere conto a Dio, gli altri no. Gli uomini di Chiesa potrebbero fare molto di più, ma quella di oggi è una Chiesa di destra. C’è una forma di contiguità con il centrodestra.
Anche a Milano? di destra anche il cardinale Tettamanzi?
No, a Milano la Chiesa non è di destra. Tettamanzi è un socialista come lo era Cristo. Lui incarna la Chiesa delle origini, che deve essere coscienza critica per la salvezza delle anime.

Roberto Zichitella, Il Riformista 17/1/2010