Antonio Martino, Libero 21/1/2010, 21 gennaio 2010
LA RIPRESA AL RALLENTATORE COLPA DEL DIRIGISMO DI OBAMA
Quanti hanno messo a repentaglio la loro credibilità professionale o personale affermando con spigliata sicumera che la crisi che volge al termine sarebbe stata un evento patologico di proporzioni pari se non superiori a quelle della Grande Depressione degli anni Trenta oggi probabilmente si pentono di essere stati così drastici. Ma, fermo restando che la crisi attuale non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella di ottanta anni orsono, c’è qualcosa che la distingue dalle recessioni degli ultimi decenni: la lentezza della ripresa.
Per esempio, in termini di diminuzione del reddito nazionale, quest’ultima è stata di dimensioni simili a quelle delle recessioni del 1973-75 e del 198182 ma, a differenza di quelle, la ripresa dell’ultima contrazione è iniziata molto più lentamente. Per esempio, nel 1983 il tasso di sviluppo dell’economia americana fu pari al 7,7% malgrado il tasso di disoccupazione avesse raggiunto il 10,8% nel dicembre 1982. Un notevole balzo in avanti specie se lo si confronta col modesto 2,2% del terzo trimestre del 2009. Come mai, la ripresa seguita alla recessione dei primi anni Ottanta fu così robusta, malgrado la gravità della disoccupazione nell’anno precedente, mentre oggi è così fiacca? Può darsi che i dati dell’ultimo trimestre dello scorso anno correggeranno al rialzo le stime per l’intero anno ma non ci sono indicazioni che suggeriscano una ripresa di dimensioni paragonabili a quelle del 1983.
Secondo quanto scrivono Gary Becker, S. Davis e K. Murphy in un editoriale del Wall Street Journal del 5 gennaio, due sono gli insiemi di fattori responsabili della debolezza della ripresa in corso. Il primo riguarda la fiducia di imprenditori e consumatori, messa a dura prova dalla drammaticità degli eventi che hanno caratterizzato la fase iniziale della crisi. Le enormi perdite subite da banchieri e investitori istituzionali hanno lasciato il segno, scoraggiando l’assunzione di rischi.
D’altro canto, le famiglie hanno sofferto anch’esse perdite ingenti sia per il crollo dei valori immobiliari sia per la forte diminuzione dei prezzi delle azioni e si astengono quindi dallo spendere in consumi o dall’impiegare i propri risparmi. In conseguenza di ciò la domanda globale per consumi e per investimenti stenta a riprendere a crescere. Le banche, anche se dotate di un aumento astronomico di riserve, esitano a concedere
nuovi mutui, mentre i potenziali investitori sono restii a contrarne. Questo primo insieme di fattori anche se certamente importante, tuttavia, non basta a spiegare la debolezza della ripresa; il responsabile vero è, come quasi sempre, la politica economica del governo.
L’incombente riforma sanitaria, che prelude ad un aumento dei costi di lavoro connessi alla protezione sanitaria dei lavoratori, scoraggia le piccole imprese dall’assumere. L’intenzione dell’amministrazione Obama di sostituire i meccanismi di tutela della concorrenza esistenti con procedure discrezionali dirigistiche, basate sull’affidare a persone (’zar”) dotate del potere di imporre a loro piacimento nuove regole, spaventa i grandi investitori. L’essere intervenuti per imporre ”tetti” alle retribuzioni di grandi banchieri sembra preludere ad ulteriori violazioni della libertà di contratto, come peraltro è già accaduto in Francia e nel Regno Unito. Le astronomiche spese pubbliche di ”stimolo” all’economia sono necessariamente la premessa di aumenti di tasse. In sintesi, volere trasformare l’economia di mercato sostituendola con una sorta di dirigismo autoritario in questo momento significa uccidere la gallina dalle uova d’oro, impedire che il mercato faccia quanto ha sempre fatto benissimo: riavviare la crescita economica e la creazione di occupazione produttiva con vantaggio per tutti.
Se di questi errori l’Italia è finora immune, neanche noi abbiamo motivo di sperare in una vigorosa ripresa: crescevamo pochissimo prima della crisi, continueremo a crescere in misura trascurabile anche dopo, almeno fintantoché non ci daremo le troppe riforme che abbiamo fin qui accantonato. La riforma fiscale, quella previdenziale, il ridimensionamento del pletorico insieme di enti locali, la soppressione dei troppi enti inutili e le tante altre riforme che non sono state fatte ci lasciano con un peso insopportabile che impedisce qualsiasi progresso economico e civile.
Avremo mai tutto ciò? Non lo so, ma sono convinto che continuareagalleggiaresull’esistente sia irresponsabile. Se a cambiare l’Italia non provvediamo noi, chi lo farà? Se non ora, quando verrà fatto? Personalmente ho sempre creduto che fra il peccato di omissione e quello di commissione sia preferibile il secondo: dovendo proprio peccare, cerchiamo almeno di divertirci!