Simon Schama, Il Sole-24 Ore 21/1/2010;, 21 gennaio 2010
OBAMA INCIAMPA SUL POPULISMO
Stiamo per scoprire di che pasta è fatto Barack Obama. Nel giorno del primo anniversario della sua giovane presidenza, Obama si è svegliato con i titoli dei giornali che recitano a gran voce il suo necrologio. Martha Coakley, candidata dal Partito democratico alla successione di Edward Kennedy per il seggio senatoriale del Mas-sachusetts, è stata sconfitta dal repubblicano Scott Brown: la maggioranza a prova di ostruzionismo del presidente Obama evaporerà nel nulla. Con la scomparsa di questa maggioranza, la riforma sanitaria su cui il presidente ha speso il grosso del suo capitale politico nel primo anno alla Casa Bianca verrà messa a rischio, forse potrebbe addirittura saltare del tutto. Tutti i compromessi che è stato costretto a fare, alcuni dei quali includevano proprio quel vergognoso mercato delle vacche da cui il candidato Obama aveva giurato di astenersi, tutte le scommesse che la sua presidenza sarebbe stata quella dei risultati e non delle promesse, adesso sembrano sciogliersi come neve al sole. Che questo ignominioso smacco sia avvenuto in uno stato tradizionalmente considerato un feudo della sinistra non fa altro che rendere questa batosta ancora più scioccante. L’estasi euforica dell’anno scorso è stata rimpiazzata da un dispeptico scompiglio.
Dunque, tutto quel che resta di quei momenti sulla scalinata del Congresso, dodici mesi fa, quando sembrava alle porte nientemeno che la rinascita della governance americana, è soltanto la magniloquenza del presidente, a cui ormai viene accostato abitualmente l’aggettivo "vuota"? I democratici hanno dato prova ancora una volta del loro ineguagliabile talento nel perdere l’imperdibile?
L’ho già detto in passato: la risposta corretta, contrariamente al nuovo senso comune, è no. Il 44?presidente è nei guai, ma se qualcuno lo considera spacciato non ha valutato bene le sue capacità. Forse, semplicemente, deve reagire alle infaticabili pressioni di una destra zombie, insaziabilmente affamata di carne e mai completamente morta, non sfoderando un fascino più consensuale, ma togliendosi i guanti bianchi. Tassando le banche («Vogliamo indietro i nostri soldi», ha detto), Obama ha cominciato a combattere, seppur in ritardo. Rimane da vedere se il presidente sarà in grado di assestare abbastanza colpi alla destra prima delle elezioni di metà mandato, ma la mia impressione è che il presidente sia pronto alla rissa.
In ogni caso, le notizie sulla morte della presidenza Obama potrebbero rivelarsi premature. Se i democratici stanno cominciando a farsi prendere dal panico, faranno meglio a riprendersi in fretta. Un’opposizione repubblicana che non fa altro che paralizzare il Congresso in un periodo di crisi nazionale si espone al rischio di essere stigmatizzata come il partito dell’ostruzionismo, da parte di un presidente bravo a polemizzare. Ronald Reagan usò questa tattica contro un Congresso a maggioranza democratica, con effetti dirompenti. Se Obama ha quello che serve politicamente - è questo il grande interrogativo che aleggia sulla Casa Bianca - può riuscire a ritorcere contro di loro l’esultanza dei repubblicani, bollando l’opposizione come egoista e an-tipatriottica. già successo in precedenza. Dopo il trionfo dei repubblicani alle elezioni di metà mandato del 1994, il partito dell’elefantino volle strafare nella sua campagna contro la presidenza Clinton, bloccando l’attività del governo federale. Il risultato, appena un anno dopo, fu la facile vittoria di Clinton alle presidenziali. Dopo le elezioni in Massachusetts, bisognerà impegnarsi in unabattaglia per la lealtà se Obama vuole recuperare libertà di manovra.
Le narrazioni si nutrono di se stesse. Lo sceneggiato in tre atti di Obama, dall’innocenza all’infatuazione fino al disincanto, ha un innegabile fascino per la cassa di risonanza dei media. una storia di masse credulone, abbindolate dal tipo disinvolto in giacca e cravatta che sa incantare con le parole, ma che alla fine si rivela un dilettante bello e buono nell’esercizio dell’arte del potere. Specialmente fuori dall’America,già si sentono lerisatine gongolanti. Per un istante, l’elezione di un presidente nero aveva fatto pensare che gli Stati Uniti avessero superato l’Europa in termini di intelligenza politica, ma si è visto che era solo una favoletta.
Al che uno potrebbe replicare: anche se la presidenza Obama in questo momento è in difficoltà, la storia è tutt’altro che finita. Altre amministrazioni che hanno lasciato il segno nella storia hanno cominciato in modo incerto. L’appello di Lincoln alla riconciliazione nazionale, in occasione del suo primo discorso d’insediamento, fu sdegnosamente soffocato dai colpi di cannone esplosi dai sudisti contro Fort Sumter, e il primo anno della guerra che ne seguì andò male per l’Unione.Il primo round della presidenza di Jfk vien ricordato soprattutto per la débâcle della Baia dei Porci. Il 1993 per Clinton si concluse con la riforma sanitaria affossata dal Congresso. L’eccezione è stata Franklin Delano Roosevelt, con il suo spettacolare primo anno del New Deal, ma lui poteva contare su maggioranze parlamentari solidissime, a prova di ostruzionismo.
In una fase di emergenza analoga, Obama ancora non è riuscito a far passare il concetto di governo responsabile; questa incapacità di persuasione può costargli cara. Se vuole motivare i suoi sostenitori, e tanto più gli elettori indipendenti, deve indicare con precisione quali sono le linee dello scontro e dare alla base qualcosa per cui entusiasmarsi. I suoi sostenitori afroamericani di South Chicago, l’area dove vive Obama, da me intervistati per le riprese di un documentario per la Bbc, vogliono che il presidente alzi la testa e risponda agli attacchi del nemico. «Se devi cadere - dice il combattivo reverendo Don Sharp - almeno dagli del filo da torcere». Ma il sostegno di persone come lui è scontato per Obama. Come farà a trascinare dalla sua parte gli elettori dell’Indiana, dell’Ohio e della Virginia, che un anno fa hanno votato per la prima volta democratico, se non riesce nemmeno a tenersi il Massachusetts? Questo è il nocciolo del problema.
Il gruppo di consulenti in carica e il suo personale istinto consensuale finora hanno raccomandato moderazione e ragionamento pacato. Ma se la sconfitta in Massachusetts non provocherà un ripensamento, a cominciare da qualche salutare licenziamento, nulla potrà riuscirci. Forse Obama dovrebbe inaugurare la nuova stagione rivendicando quello che ha fatto, senza alcuna contrizione. Perché nel bilancio del suo primo anno non c’è niente di cui vergognarsi. Io scommetto che se l’ostruzionismo dovesse affossare la riforma sanitaria, i repubblicani ne pagherebbero lo scotto in autunno. In ogni caso, la lista dei successi nel suo primo anno di governo è impressionante.
Obama ha legiferato senza tregua, firmando provvedimenti per limitare gli abusi delle società di carte di credito, per garantire alle donne di venir pagate quanto gli uomini per lo stesso lavoro, per cancellare il divieto di ricerca sulle cellule staminali umane e per stabilizzare l’industria dell’auto americana. Poi c’èil pacchetto di stimolo da 787 miliardi di dollari, che ha fatto esattamente quello che doveva fare: innescare una ripresa. La disoccupazione rimane inaccet-tabilmente alta, ma sta rallentando. Gli ordinativi dell’industria sono in crescita e l’allargamento del disavanzo commerciale è la prova che la domanda di consumi si sta muovendo. Il mercato azionario è salito come un aquilone, ma la cosa più importante per l’economia reale è che il credito sta ripartendo. Niente di tutto questo autorizza ancora a stappare lo champagne, ma le cassandre che profetizzavano che il 2010 avrebbe visto l’economia impantanata in una recessione sempre più profonda sono state smentite.
La sua politica estera finora ha fruttato risultati abbastanza modesti, ma non ha neanche prodotto disastri (tranne che a Copenhagen, dove il mondo ha avuto un assaggio di quello che può attendersi da un’egemonia cinese: la morte del pianeta). Ildialogo con l’Iran si è rivelato di corto respiro, ma l’apertura di Obama è stata comunque positiva, al di là della brutalità della tirannia dei mullah. In Afghanistan è troppo presto per emettere un verdetto sull’escalation militare decisa dal presidente, e gli attentati suicidi - come in Iraq - non possono essere assunti come prova del fallimento.
Ma allora che cosa diamine è che non sta funzionando? Obama non ha esercitato il talento che quelli di noi che seguono la sua carriera politica da molto tempo pensavano padroneggiasse senza problemi: la capacità di prendere il controllo della narrazione americana. Il passaggio da candidato scoppiettante ad amministratore distante è cominciato esattamente un anno fa, quando non ha regalato alla folla accorsa al suo insediamento qualche frase su cui esplodere in acclamazioni fino a perdere la voce. Era come se stesse dicendo: «Lo so che volete urlare ed entusiasmarvi, ma dovreste vedere la lista delle cose che devo fare». Ora che è passato un anno, questo rifiuto ad abbassarsi alle minuzie della polemica pubblica si è fatto più accentuato. Ma ha lasciato un vuoto di passione su cui si è lanciata, con furia contagiosamente melodrammatica, la destra intransigente.
L’indisponibilità di Obama a sporcarsi le mani con la demagogia equivale a commettere un fatale errore di interpretazione di quello che è la politica americana, che raramente bazzica i cieli tersi del successo legislativo. La politica americana si nutre di rabbia e rumore: il compito di Obama è dargli un significato. Se opterà per questa strada, la riforma del sistema di regolamentazione della finanza sarà il palcoscenico perfetto per riconquistare quel populismo di cui ha bisogno se vuole che la sua presidenza sopravviva in forma accettabile.
Tieni testa ai cattivi, Barack. Ricorda in che stato era la nazione quando i repubblicani erano ancora alla Casa Bianca. Altrimenti, il tuo governo perirà per effetto della propria stessa, nobile schizzinosità.