Fabio Poletti, La Stampa 19/1/2010, pagina 7, 19 gennaio 2010
UN COGNOME NEL SEGNO DELLA STELLA A CINQUE PUNTE
Se lo ricordano tutti, Manolo Morlacchi. «Quando arrivava lui, mettevano il tappeto rosso». Non che avesse fatto qualcosa per meritarselo. Giusto un libro con la storia di famiglia, «La fuga in avanti», titolo profetico, edizioni Agenzia X Books. Una laurea in storia contemporanea. L’appartamento in una casa occupata. Un lavoro in una multinazionale americana specializzata in archivi informatici. Vita ordinaria di un quasi quarantenne qualsiasi. Se non fosse per l’accusa di far parte dell’ultima leva delle Brigate Rosse, che lo ha riportato in carcere per la seconda volta. Se non fosse per quel cognome, Morlacchi appunto, che a un vecchio poliziotto ancora oggi fa dire con un certo fatalismo: «Nessuno stupore, tale il padre, tale il figlio».
Manolo Morlacchi, il figlio di Pierino. Manolo Morlacchi, il nipote di Emilio. Dieci fratelli Morlacchi, sei dei quali finiti in carcere per Br negli Anni Settanta. Come sua madre Heidi Ruth Peusch, tedesca di Dresda, approdata per i casi della vita al Giambellino, case popolari e osterie, operai specializzati nostalgici della Resistenza e specialissimi rapinatori contro ogni legge. Il Giambellino dove la storia della famiglia Morlacchi finisce per diventare la storia stessa delle Brigate Rosse. «A Milano le Br potevano nascere solo lì, sotto casa del Pierino», raccontano che abbia detto una volta Renato Curcio, il capo storico. Del nucleo storico faceva parte pure Pietro Morlacchi, tipografo e figlio di partigiani comunisti. Una generazione cresciuta con il Pci ed espulsa dal partito negli Anni Sessanta per non aver smesso di inneggiare al «compagno Giuseppe Stalin». E poi al «compagno Mao Tze Tung» - come scrivevano allora sui muri del quartiere, scritte cubitali, una lunga centocinquanta metri - che il vecchio Dino, un altro zio di Manolo, la stessa storia di tutti gli altri Morlacchi, era andato addirittura ad incontrare a Pechino nel ”64.
Manolo Morlacchi è vissuto a «pane e rivoluzione» da sempre. Nella prima azione a cui sicuramente «partecipa», ha appena due anni. Mario Moretti e suo padre danno l’assalto a una banca di Pergine in Trentino. E’ il 1971. Non sono ancora le Brigate Rosse che diventeranno tra poco. I nove milioni di lire del bottino sua madre Heidi li nasconde nel pannolino che indossa il piccolo Manolo. Quando Renato Curcio decide di fare un comizio pubblico lo fa al Giambellino, sotto casa di Manolo. Quando le Brigate Rosse decidono di alzare il tiro, lo fanno con i Morlacchi. Il sequestro del dirigente della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, pistola in faccia e cartello al collo nella foto, è del 1972. I negativi delle foto li troveranno in un appartamento preso in affitto dal padre di Manolo. Il nome dei fratelli Morlacchi finisce nella prima inchiesta delle Brigate Rosse a Milano assieme a Renato Curcio, Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, Giorgio Semeria.
Pietro Morlacchi inizia a fare dentro e fuori dal carcere. Manolo che è ancora bambino, incontra il padre dietro al doppio vetro blindato delle sezioni di massima sicurezza. «Quando andavo a trovarlo erano giornate di festa. A scuola mi vantavo di lui», racconterà Manolo in quel libro, che secondo come lo si guardi può essere la storia di famiglia o la rivendicazione di quello che ancora non è. Poi le Brigate Rosse cambiano. Iniziano a sparare e a uccidere. Nel ”78 sequestrano e ammazzano Aldo Moro. «Mio padre mi ha detto con forza che lui e tutti i compagni di Milano erano contrari al sequestro e all’esecuzione. Sarebbe stato più dirompente Moro vivo», racconta in un’intervista Manolo, zero dubbi, solo politica. Ma il doppio filo che lega i Morlacchi alle Brigate Rosse mica si rompe.
Nell’80 Piero Morlacchi finisce nuovamente in carcere. Lo prendono mentre sta scrivendo su un muro con la vernice «Viva le Brigate Rosse». Quando esce definitivamente nel 1992 non è più quello. L’alcol e le delusioni della vita lo ammazzeranno in pochi anni. Al suo funerale al Giambellino nel 1999, Manolo è in prima fila con la bandiera rossa e il pugno alzato. Deve essere in quel momento che decise di scrivere il libro su suo padre. Deve essere allora, che iniziò l’ultimo capitolo della famiglia Morlacchi, scritto ora dai magistrati di Roma. Un capitolo che Manolo, aveva già impresso nel Dna: «Essere figlio di mio padre mi ha sempre creato solo vantaggi. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere da quelle che erano le loro convinzioni politiche».
Fabio Poletti