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 2010  gennaio 18 Lunedì calendario

LA PREMIERE DAME DELL’ECONOMIA

Non è la solita tecnocrate francese dal destino tracciato fin dalla culla: infanzia nei bei quartieri, licei prestigiosi, grandi scuole, gabinetti ministeriali e poi incarichi manageriali nelle più grandi aziende del paese o responsabilità politiche. Lei non ha fatto l’Ena e non perché non l’abbia voluto: si è presentata due volte al concorso di ammissione e per due volte è stata bocciata. Forse per questo Christine Lagarde, 54 anni appena compiuti, è così atipica nel panorama politico transalpino. Questa signora snella ed elegante, abituata a lavorare in giro per il mondo, francese di nascita e di formazione, statunitense di adozione, è diventata in pochi mesi, quelli della tempesta che ha rischiato di travolgere il capitalismo occidentale, uno dei personaggi chiave della scena francese e internazionale.
Dimenticate le gaffe del passato, adesso il ministro delle Finanze può tranquillamente annunciare una sovrattassa di 360 milioni sui bonus dei banchieri senza suscitare scandalo nemmeno a Londra o a New York, dove è apprezzata più di qualsiasi uomo politico latino.
Strana e bella storia per questo atipico ministro delle Finanze, unica donna ad aver mai ricoperto questo incarico in un paese del g8, dove addizioni, sottrazioni e percentuali sono ancora considerate cose da maschi, malgrado gli uffici studi di tutte le istituzioni finanziarie internazionali siano pieni di economiste di alto livello. In fondo, niente destinava questa signora della buona borghesia transalpina alla politica. Un mondo dove si danno e si pigliano pugnalate alla schiena, dove si tradisce per poi riappacificarsi, dove l’eleganza non è di casa.
Un mondo che fa a pugni con quello della Lagarde, con le sue buone maniere: «E’ profondamente sana, con lei non hai paura di prenderti una coltellata nella schiena», dice un sottosegretario. E tutta la sua carriera è atipica. Vicecampione francese di nuoto sincronizzato, ha imparato dallo sport a darsi una disciplina di ferro. Figlia di due professori, ha sempre tenuto a lavorare durante le vacanze, a sgobbare duro sui libri, tanto da ottenere un bel mazzo di diplomi universitari. Profondamente segnata dalla morte del padre, scomparso quando aveva diciassette anni, si è specializzata in diritto internazionale e ha spiccato il volo verso gli Stati Uniti. Ci è rimasta quasi un quarto di secolo. Nel 1981 è entrata nel più grande studio di avvocati di affari americano, Baker & McKenzie, dove ha scalato tutti i gradini, fino a diventare, nel 1999, presidente del comitato strategico. Un incarico che ha conservato per cinque anni: quando lascia, il fatturato di Baker & McKenzie è salito del 50 per cento a 1,2 miliardi di dollari. Logico quindi che piaccia agli anglosassoni: il Financial Times l’ha eletta ministro delle Finanze del 2009, Time l’ha inserita tra le 100 persone più influenti del mondo (l’unico altro francese è Nicolas Sarkozy), Forbes l’ha classificata quattordicesima donna più influente del pianeta.
In quei venticinque anni passati tra Chicago, Parigi e Hong Kong si è impadronita della mentalità anglosassone, ha rafforzato le proprie idee liberali, ma ha imparato anche un metodo di lavoro. Non quello spiccio e autoritario, che punta tutto sullo stress dei propri sottoposti: «Quando hai centinaia di associati provenienti da trentasei paesi, che pensano di essere tutti uguali e di sapere meglio di te quel che si deve fare, se vuoi convincerli non puoi utilizzare gli argomenti della forza. Bisogna capire l’approccio degli altri, definire degli angoli di attacco e di difesa e negoziare». Un metodo che applica anche a Bercy, sede del ministero dell’Economia e delle Finanze, e che i suoi collaboratori apprezzano enormemente.
Non è molto chiaro come le sia venuto il pallino della politica, tanto più che non è certo il tipo che va a distribuire volantini nei mercati e a stringere le mani degli elettori. Non che disdegni il prossimo, ma non è nella sua cultura, nella sua educazione. E’ stato Thierry Breton, ex presidente di France Télécom e ministro delle Finanze tra il 2005 e il 2007, a segnalarla a JeanPierre Raffarin. Ma è stato il successore di Raffarin all’Hotel Matignon, Dominique de Villepin, a imbarcarla nel suo governo come ministro del Commercio estero. Il test è positivo, ma la signora Lagarde sembra confinata in un ruolo tecnico.
Eppure, quell’esperienza non è passata inosservata. Subito dopo la sua elezione, Sarkozy la nomina ministro dell’Agricoltura, incarico molto delicato Oltralpe e in apparenza ben lontano dalle sue competenze. Ma ci resta solo un mese: dopo le elezioni politiche del giugno 2007 c’è bisogno di un nuovo ministro delle Finanze per rimpiazzare JeanLouis Borloo, responsabile di una gaffe che ha fatto perdere voti al centrodestra.
E Sarkozy sceglie lei. Contro le aspettative e anche contro il parere di qualche consigliere. Il presidente, anch’egli avvocato ed estraneo al mondo della tecnocrazia statale, crede nella donna e nelle sue doti: «La sento bene», confida ai suoi. Lanciarla in un posto così esposto, lei che non conosce niente dei meccanismi politicoistituzionali e che è una sconosciuta per i parlamentari, è una scommessa. Vinta: negli ultimi diciassette anni, è il ministro delle Finanze che ha resistito più a lungo e adesso è addirittura gettonata come possibile primo ministro, un incarico per il quale le manca però il peso politico.
I primi tempi non sono stati facili, le gaffe si sono sprecate. Una è rimasta celebre: di fronte all’aumento del prezzo della benzina ha invitato i francesi ad andare in bicicletta. Una frase infelice, che gli è stata rimproverata come quella sul pane e le brioche è stata rimproverata a Maria Antonietta (che peraltro non l’aveva mai pronunciata). E quando arrivano le prime avvisaglie della crisi, la Lagarde sembra quasi prendere sottogamba i pericoli che si accumulano all’orizzonte.
Sarkozy, tuttavia, la difende. L’ha scelta lui e non ama smentirsi. Ma soprattutto crede nelle sue capacità: «Lasciatele le sue chance».
C’è chi tenta di sgambettarla, chi mette in giro la voce delle sue dimissioni mentre partecipa a un vertice internazionale. Alcuni interlocutori, a fine estate 2008, chiedono a Sarkozy di nominare a Bercy un politico di razza. Lei mette subito le cose in chiaro. Va all’Eliseo e parla a quattr’occhi con il capo dello Stato: «Se vuoi le mie dimissioni, dillo subito».
«Ci mancherebbe solo questo», risponde il presidente, che non vuole una crisi politica mentre esplode quella finanziaria. Da quel momento, la signora Lagarde non commette più un solo errore, nei sondaggi la sua popolarità s’impenna.
In quelle settimane terribili in cui il mondo occidentale rischia il naufragio, quella donna elegante che parla un inglese più che perfetto, capace di discutere con grande competenza con i responsabili politici e finanziari del pianeta è un ”atout’ per la Francia. Timothy Geithner, il segretario al Tesoro statunitense, non lesina i complimenti: «La sua intelligenza rapida come un lampo, il suo calore e la sua capacità di superare con accanimento le divisioni, pur restando leale verso gli interessi francesi, sono stati fonte di ammirazione».
E’ stata lei ad aiutare Sarkozy a trovare i compromessi necessari, a convincere i recalcitranti sull’utilità di certe misure, a fare certe scelte economiche piuttosto che altre. I risultati sono stati all’altezza delle speranze. E anche se c’è chi dice che è una semplice subalterna, un esecutore di decisioni prese all’Eliseo, lei non se la prende: «Dire che la politica economica non è pensata qui, ma solamente eseguita, mi lascia indifferente. In politica, come in guerra o in amore, tutto sta nell’arte dell’esecuzione». Una definizione che riassume l’arte di Christine Lagarde.