MARCELLO DE CECCO, Repubblica Affari e Finanza 18/1/2010, 18 gennaio 2010
LA TORTURA DELLO YUAN
Il cambio della moneta cinese è l’argomento più trattato sulla stampa economica dopo la politica monetaria americana. I due sono tra loro indissolubilmente legati: nella catena causale la creazione di dollari precede la fissazione del loro valore in yuan. Se si creano meno dollari senza che i cinesi facciano nulla, il dollaro si rivaluta.Le autorità monetarie cinesi, tuttavia, una volta creati i dollari, possono mantenerne fermo il valore in termini di moneta cinese cambiandoli a tasso fisso quando vengono spesi per comprare gli yuan. Comprano i dollari dagli esportatori cinesi e li usano per comprare titoli del debito americano. Perché i cinesi insistono in questa politica invece di permettere la rivalutazione dello yuan? Secondo gli osservatori stranieri, le autorità cinesi non vogliono che le merci diventino troppo care per gli stranieri, e proteggono artificialmente il potere di acquisto del dollaro in Cina perché pensano che una rivalutazione faccia scendere le esportazioni e quindi la domanda totale di merci in Cina. Il blocco, dicono i critici della politica cinese, è entrato in funzione a metà 2008 quando la crisi ha fatto precipitare le esportazioni cinesi, mentre nei tre anni precedenti allo yuan era stato permesso di rivalutarsi del 20%. E, aggiungono gli stessi critici, il blocco del cambio dello yuan ha funzionato, perché nel 2009 la Cina ha superato la Germania come primo paese esportatore.
Aggiungono gli stessi critici che persistendo gli Stati Uniti nella politica di espansione monetaria e i cinesi in quella di ancoraggio al dollaro, chi ne esce con le ossa rotte è l’euro, che fluttua liberamente sui mercati ed è l’unica moneta ad assorbire sul cambio gli effetti della politica monetaria Usa. Con le prevedibili conseguenze negative sul commercio estero dei paesi dell’Unione monetaria europea. Ma se l’euro fosse una moneta come le altre, espressione di uno stato federale, la Bce potrebbe avere una politica valutaria come l’hanno gli altri. Non è dunque giusto addossare a cinesi e americani tutta la colpa per la rivalutazione dell’euro. Alcuni osservatori notano che il dollaro debole fa parte del pacchetto di misure di rilancio dell’economia americana. Si aggiunge che il fatto che tale debolezza si esprima nei confronti dell’euro, restando bloccato il cambio dello yuan in dollari, forse non dispiace ai proprietari delle multinazionali americane che sono andate a produrre in Cina e sono responsabili per oltre il 60% del valore dell’export cinesi. Certo, una rivalutazione dello yuan permette loro di cambiare i propri profitti in Cina in una quantità maggiore di dollari. Ma lo yuan debole permette alle loro imprese basate in Cina di impadronirsi di sempre maggiori fette del mercato mondiale dei beni di consumo che producono e alle loro fabbriche basate negli Stati Uniti di importare parti e componenti cinesi a buon mercato da usare per i propri prodotti. Dio sa quanto questo pesi per i fabbricanti europei di prodotti intermedi, come gli italiani ma anche quelli dell’Europa centrorientale che devono sopportare la concorrenza di prodotti simili ai loro provenienti a costi sempre più bassi dalla Cina per via del cambio dell’euro che sale continuamente nei confronti sia del dollaro che dello yuan.
Le obiezioni al mantenimento della parità yuandollaro sono sacrosante. Ma esse devono riferirsi sia al numeratore che al denominatore di questo rapporto di cambio. Come ho già detto, la catena causale parte dalle decisioni della banca centrale americana che crea i dollari e investe le responsabilità delle autorità cinesi solo quando i dollari vengono spesi in Cina, in forma di acquisti di merci o investiti in forma di capitali. La stranezza della situazione sta nel gioco delle parti cui si dedicano i protagonisti di questo rapporto. Gli americani dovrebbero essere ben felici di sapere che i cinesi sono disposti ad assorbire dollari per un tempo indefinito comprando titoli del debito in un periodo in cui si prevede un forte aumento delle emissioni per finanziare il gigantesco deficit. Invece, da parte americana provengono continui rimbrotti alle autorità cinesi e ferventi esortazioni a rivalutare lo yuan. Ai tempi in cui la stessa situazione si verificava tra dollaro e yen o tra dollaro e marco, l’atteggiamento americano non era diverso: anche allora l’irritazione dei destinatari dei rimbrotti era assai viva e induceva spesso a commenti pesanti sugli aspetti meno felici della politica economica ma anche della società americana. Ora quei commenti li fanno i cinesi.
Non c’è dubbio che la pressione sullo yuan e sull’euro sia stata causata dagli effetti dell’espansione monetaria d’emergenza iniziata dalla Fed dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 sia sui mercati delle merci che sul sistema finanziario Usa. Tale politica è durata oltre la fine di tale emergenza: questo ha danneggiato i paesi dell’euro perchè essi non hanno ritenuto di neutralizzare l’effetto della gigantesca creazione di dollari sulla loro moneta ma la hanno lasciata liberamente fluttuare e raggiungere persino il livello di 1,60 per dollaro, provocando una vera strage nella capacità industriale europea, perchè allo stesso tempo i cinesi per quattro anni tenevano il cambio fisso a 8 yuan e invadevano i mercati con le loro merci. Essendosi finalmente convinti a permettere la rivalutazione dello yuan del 20% tra 2005 e 2008, sembravano disposti a seguire la stessa direzione negli anni successivi, ma la tempesta bancaria scatenatasi proprio a partire dal 2008 ha avuto l’effetto di far loro interrompere tale politica, per non danneggiare le esportazioni e gli equilibri sociali interni.
Siamo giunti ad un punto delicato delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Il coro di quelli che chiedono una ripresa della rivalutazione dello yuan, diretto da Washington, si è fatto assordante. Misure antidumping contro l’acciaio cinese sono già state adottate negli Usa e in Europa. Se ne minacciano di simili anche per altri settori. Dal canto loro, i cinesi come gli indiani, hanno iniziato a considerare gli affari monetari come parte esplicita della politica estera. La Reserve bank of India ha effettuato pesanti acquisti d’oro avendo percepito l’abbandono da parte americana della politica di avvicinamento al paese a favore al sempre preferito Pakistan. I cinesi dal canto loro si sono irrigiditi sul cambio, escludendo una rivalutazione e trasformando la visita di Obama in un clamoroso fallimento, con episodi di mancanza di cortesia da parte cinese, specialmente perchè gli Usa si sono rifiutati di negoziare la non installazione dei missili Patriot a Taiwan contro la non attivazione dei missili antimissile cinesi. Tutti insomma l’hanno buttata in politica e il mescolare politica estera e politica economica è storicamente frequente ma pericoloso. Riserve e cambi, dopo la globalizzazione di fine ”800 cominciarono a far parte dell’armamentario di politica estera nei quindici anni che terminano col 1914. Una data che evoca persino nei giovani il ricordo tragico della prima guerra mondiale.