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 2010  gennaio 18 Lunedì calendario

LA FINE DELLA GUERRA ALLA COCA (2

articoli) -
Il blitz di fine anno sembrava di quelli decisivi. L’irruzione dei reparti speciali messicani in un condominio di lusso si era conclusa lasciando disteso su un tappeto pregiato il cadavere crivellato di colpi di Arturo Beltran Leyva. Un pezzo grosso del narcotraffico, responsabile di aver cosparso per anni le strade americane di cocaina e marijuana per miliardi di dollari. Ma l’illusione che l’organizzazione di Beltran Leyva entrasse in crisi ha avuto vita breve: tempo pochi giorni ed è stato scelto il successore del boss defunto, mentre un commando di killer si è vendicato uccidendo vari membri della famiglia di uno dei poliziotti protagonisti dell’irruzione.
Un copione che si ripete da anni, accompagnato nell’ultimo triennio da oltre 15.000 morti negli scontri lungo il confine Messico-Usa per il controllo del business della polvere bianca. La carneficina messicana, unita alla sempre maggiore difficoltà per gli Usa a trovare alleati per la linea dura tra i governi dell’America Latina, sta portando a una svolta storica. A 40 anni dalla decisione del presidente Richard Nixon di lanciare unilateralmente la «guerra alla droga», l’America di Barack Obama è pronta a dichiarare impossibile da vincere il conflitto, a chiuderlo e a trasformare radicalmente la gestione della lotta agli stupefacenti.
Dopo aver speso negli anni oltre mille miliardi di dollari di soldi pubblici in un conflitto che sembra sempre in stallo, gli Usa senza enfasi stanno ritirando gli agenti della Dea (Drug Enforcement Administration) dai fronti in Colombia e in Afghanistan. I fondi per la lotta al narcotraffico vengono deviati verso campagne di prevenzione. In Congresso sono partiti i lavori di una commissione che deve riscrivere completamente la strategia antidroga. E alla Casa Bianca, il presidente fa studiare seriamente al proprio staff la fattibilità di un passo che avrebbe ripercussioni mondiali: legalizzare la marijuana.
Il New Jersey è diventato in questi giorni il 14° Stato degli Usa ad approvare l’uso dell’«erba» per fini medici, confermando che esiste un vasto sostegno da parte dell’opinione pubblica ad agire anche su scala nazionale. Ma ad aver lasciato un segno su Obama è stato soprattutto un colloquio con tre ex presidenti dell’America Latina, tutti con credenziali conservatrici, quindi difficili da attaccare per i repubblicani proibizionisti. Ernesto Zedillo (Messico), Cesar Gaviria (Colombia) e Fernando Enrique Cardoso (Brasile) hanno raccomandato a Obama di legalizzare la marijuana, per togliere almeno una fonte di guadagno al narcotraffico.
Un altro suggerimento all’amministrazione, circolato anonimamente sul Wall Street Journal perché nessuno si azzarda a dirlo pubblicamente ma attribuito a fonti autorevoli, è quello di abbassare un po’ la guardia nei Caraibi, per favorire i traffici nella regione. Il motivo? Indebolire le gang messicane. L’offensiva contro i «cartelli» colombiani negli Anni 80 e 90 ha chiuso infatti per loro buona parte delle rotte caraibiche per rifornire gli Usa. Ma ha anche spostato il problema in Messico. Nel 1991 circa il 50% della cocaina diretta verso gli Stati Uniti passava sul territorio messicano. Adesso la percentuale è del 90%, i boss locali impongono il prezzo ai colombiani e controllano tutto l’iter, con profitti immensi: un chilo di cocaina vale 1.200 dollari in Colombia e viene rivenduto a 80.000 dollari nelle strade di New York. I signori della droga messicani navigano nei dollari: uno di loro, Joaquin «Shorty» Guzman, è entrato nell’ultima classifica dei miliardari globali di «Forbes». per questo che si fa strada l’idea di favorire silenziosamente rotte alternative della coca nei Caraibi: insieme alla legalizzazione della marijuana, potrebbe essere un modo per mandare in rovina i boss messicani. «Fino a ora abbiamo attaccato i protagonisti del traffico, invece di colpire la loro industria», afferma Alberto Islas, un esperto messicano. «Adesso dobbiamo concentrarci sul ridurre il loro mercato e far crescere i costi operativi».
Per muoversi, la Casa Bianca probabilmente attenderà di vedere che aria tira nella commissione del Congresso, guidata dal deputato del Bronx Eliot Engel. Ma dopo aver chiuso la guerra in Iraq di Bush e cancellato dal vocabolario la «guerra al terrorismo» della precedente amministrazione, Obama sembra intenzionato a far calare il sipario anche sul conflitto aperto da Nixon 40 anni fa.
Marco Bardazzi, La Stampa 18/1/2010

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INTERVISTA A MOISES NAIM -
New York. Bisogna uscire dalla dicotomia disastrosa tra proibizionismo e legalizzazione che ha dato esiti nefasti. Moises Naim, direttore della rivista «ForeignPolicy» e autore del libro «Illecito. Come trafficanti, falsari e mafie internazionali stanno prendendo il controllo dell’economia globale», è convinto che i tempi siano maturi per un approccio diverso. Qualcosa, a suo avviso, si sta muovendo nella giusta direzione.
 da condividere la rinuncia di Obama alla guerra alla droga?
«La sua non è una decisione esplicita. una tendenza che non è del solo presidente, ma si sta allargando agli Stati, all’opinione pubblica, allo stesso Pentagono».
Che cosa c’è che non va nella guerra degli Usa?
 il Paese maggior importatore di droghe e maggior esportatore di cattive politiche della droga. La ”guerra” è sempre stata una idea sbagliata, un concetto usato ed abusato che ha portato solo guai. Estremizzare in modo manicheo tra i due opposti, la totale negazione dell’uso e la assoluta liberalizzazione di tutti gli stupefacenti, non ha portato risultati positivi, anzi».
Quale sarebbe la terza via da adottare?Marijuana sì ed eroina e cocaina no?
«Fosse così semplice. Nel mezzo, tra i due guasti ormai dimostrati, c’è una linea che liberalizzi la ricerca intelligente delle alternative. Sapendo che nessuna è senza costi e senza rischi per la società».
Ma sono preparati, gli americani, a un cambio di strategia?
«Vivono una profonda contraddizione. Il 76% pensa che la guerra lanciata da Nixon sia fallita. Solo il 19%, però, crede che il focus oggi centrato sugli impegni antidroga debba essere spostato dalla interdizione dei traffici, dagli arresti e dalle detenzioni, alle spese per i trattamenti dei tossicodipendenti e per la rieducazione».
Quali sono i segnali di trend correttivi che emergono, a parte le ventilate misure della Casa Bianca di tagli diretti di fondi e agenti?
«Il primo è che cresce il numero di chi capisce che i costi in soldi e in vite continuano ad aumentare, e non ci sono prove di un calo di diffusione delle droghe. Il secondo è che gli effetti collaterali della repressione dei cartelli in Sud America sono ormai evidenti nella situazione degenerata in Messico. Il terzo è una apertura strisciante, su base statale, alla liberalizzazione della marijuana».
Che cosa resta?
«La conversione del Pentagono. I vertici militari stanno comprendendo che non si vince la guerra ai terroristi in Afghanistan se si distruggono i campi di oppio che sono spesso la sola risorsa di vita della popolazione. Bisogna ”liberalizzare’ la ricerca di soluzioni alternative e non restare schiavi degli interessi della burocrazia delle agenzie Usa che fanno di mestiere la guerra alle coltivazioni di oppio, e non si arrendono ai loro insuccessi».
Glauco Maggi, La Stampa 18/1/2010