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 2010  gennaio 18 Lunedì calendario

L’INDIA PRIMA DI BUDDHA COS NACQUE LA SAPIENZA

Qualche tempo prima dell’epoca del Buddha – ma nessuno potrebbe dire con certezza quando – si staglia la figura di Yajnavalkya. Il sacrificio ( yajna) è nel suo nome, ma non altrettanto chiaro è il senso di -valkya. Aveva ricevuto la sua dottrina dal Sole, Aditya. Per sapere occorre ardere. Altrimenti ogni conoscenza è inefficace. Perciò occorre praticare l’«ardore», tapas. E il Sole è l’essere che più di ogni altro arde. A lui è naturale rivolgersi, per attingere la dottrina. Nei testi più antichi, ovunque Yajnavalkya appaia, parla poco e per ultimo. La sua parola era tagliente, definitiva. Scontrarsi con lui, una prova temibile. Anche l’«accorto» Shakalya, che Frits Staal ha definito «il primo grande linguista nella storia dell’uomo» perché fissò la versione Padapatha del Rigveda’ quella che tutt’oggi leggiamo, con parole separate ”, dovette patirne le conseguenze. Non riuscì a rispondere a un quesito di Yajnavalkya e la sua testa andò in pezzi. Le ossa vennero raccolte da predoni, che non sapevano a chi erano appartenute.
Yajnavalkya si fa avanti ogni volta in situazioni insidiose. Sembra che ami la provocazione e la sfida. Un giorno fu il re Janaka del Videha che volle mettere Yajnavalkya in difficoltà. Ma non riuscì a sopraffarlo.
«Janaka del Videha una volta interrogò Yajnavalkya: "Conosci l’agnihotra, Yajnavalkya?". "Lo conosco, o re" egli disse. "Che cos’è?". " latte". "Se non ci fosse latte, con che cosa sacrificheresti?". "Con riso e orzo". "Se non ci fossero riso e orzo, con che cosa sacrificheresti?".
"Con altre erbe che ci fossero in giro".
"Se non ci fossero altre erbe in giro, con che cosa sacrificheresti?". "Con le erbe della foresta che trovassi". "E se non ci fossero erbe della foresta, con che cosa sacrificheresti?". "Con i frutti degli alberi". "E se non ci fossero i frutti degli alberi, con che cosa sacrificheresti?". "Con l’acqua". "Se non ci fosse acqua, con che cosa sacrificheresti?".
Egli disse: "Allora qui non ci sarebbe più nulla, eppure si farebbe offerta della verità ( satya) nella fiducia ( shraddha)".
"Conosci l’agnihotra, Yajnavalkya: ti do cento vacche", disse Janaka».
Quel giorno il re Janaka aveva voluto spingere Yajnavalkya sino alla difficoltà estrema. Per farlo, aveva preso spunto dal rito più semplice, l’agnihotra: puro atto del versare latte sul fuoco. Voleva scoprire che cosa rimarrebbe se anche gli elementi più comuni venissero meno. Era un artificio per mettere allo scoperto il procedimento che opera in ogni offerta. Yajnavalkya colse subito il punto. Occorreva rendere evidenti i due princìpi di ogni atto sacrificale: la sostituzione e la trasposizione dal visibile all’ordine della mente. A sua volta, l’ordine della mente veniva ridotto ai suoi termini ultimi, oltre i quali non si dà più la coppia della sostanza da offrire e dell’agente che consuma tale sostanza (il latte e il fuoco dell’agnihotra). Quei due termini erano satya, «verità», quindi qualcosa che non apparteneva sin dall’inizio alla vita degli uomini («gli uomini sono la non-verità» si dice nello Shatapatha Brahmana), ma doveva essere conquistato perché essi potessero trovarsi nella condizione di offrire qualcosa; e shraddha, «fiducia», in particolare fiducia nell’efficacia del rito, sentimento senza il quale l’intero edificio del pensiero si abbatte. Shraddha è l’assioma vedico: la convinzione, non dimostrabile ma sottesa a ogni atto, che il visibile agisca sull’invisibile e, soprattutto, che l’invisibile agisca sul visibile. Che il regno della mente e il regno di ciò che è palpabile comunichino continuamente. Non avevano bisogno di fede, se non in questo senso, che poi implicava tutto il resto. Occorreva Yajnavalkya per dirlo con tale icasticità.
Re celebre per la sua magnanimità e il suo sapere, Janaka rimase appagato dalle risposte di Yajnavalkya sull’agnihotra. Al punto che, secondo la versione del Jaiminiya Brahmana, «diventò suo discepolo». Con umiltà, disse a Yajnavalkya: «Istruiscimi». La situazione si era rovesciata. Ora chi poneva domande sarebbe stato Yajnavalkya, il quale volle intervenire, come un chirurgo, esattamente sulla giuntura che non teneva, nel sapere di Janaka. Eppure quel sapere era imponente. Con alta benevolenza, Yajnavalkya descriveva Janaka come qualcuno che, prima di lanciarsi in un lungo viaggio, «si munisce di un carro e di un battello». Questo erano per lui le upanishad, le «connessioni segrete» che aveva raccolto perché lo facessero procedere nel lungo viaggio della conoscenza. Non risulta che ad alcun altro Yajnavalkya ab-
bia rivolto un simile omaggio. Ma, pur così carico di potere e di sapere, Janaka giungeva a un punto dove le «connessioni segrete» non lo soccorrevano più. Esattamente su quel punto Yajnavalkya volle interrogarlo. D’improvviso’ come era nel suo stile’ gli chiese: «Quando sarai liberato da questo mondo, dove andrai?». Con pari franchezza, Janaka rispose: «Non so dove andrò, mio Signore».
 uno scambio di battute che dissipa una volta per sempre ogni visione bigotta dell’India vedica. Qui il re sapiente, Janaka, riconosce di essere perso e ignaro, come tutti, nel momento in cui lascia il mondo. Del quale è possibile liberarsi (ossessione indiana, come lo sarà la «salvezza» per i cristiani), ma non necessariamente sapendo dove si va. Yajnavalkya a questo punto offre, già all’interno della Brhadaranyaka Upanishad, un sapere che va al di là delle upanishad (nel senso di «connessioni segrete»).
Per chiarire dove si va dopo la morte, Yajnavalkya non menziona né la vita né la morte. Con improntitudine, come le sue parole fossero una risposta puntuale, dice: «Indha (il Fiammeggiante) è il nome di quella persona ( purusha) che appare nell’occhio destro; in verità è indha, ma lo si chiama Indra per coprire il nome segreto. Gli dèi infatti amano il segreto e avversano ciò che èmanifesto». L’ultima frase è la clausola che rintocca innumerevoli volte nei Brahmana, con la funzione di avvertire che si sta varcando la soglia dell’esoterico. E l’esoterico è tale innanzitutto perché gli dèi lo amano, a differenza di ciò che sùbito appare alla vista. questa la risposta indiana – anticipata di molti secoli – a quell’«odio del segreto» su cui, secondo Guénon, si sarebbe fondato l’Occidente. Qui Yajnavalkya ci dà una dimostrazione fulminea di che cosa possa essere il segreto. Per annunciare che cosa avviene dopo la morte, non descrive una terra o un cielo di vita perenne. Ma parla di fisiologia. Parla di quella minuscola figura che si vede riflessa nella pupilla di chiunque. E la definisce «persona», purusha, usando la stessa parola che designa il gigante primordiale, smembrato nel mondo, dell’inno X,90 del Rigveda – essere di cui già nella stessa
Brhadaranyaka Upanishad si era detto: «L’atman, il Sé, esisteva da solo in origine sotto forma di Purusha». Il nome di Indra’ re degli dèi’ non è che una copertura per indha, che significa «fiammeggiante». E quel personaggio ha una compagna, Viraj (nome di un metro e paredra del Purusha primordiale). Ma perché queste due minuscole figure riflesse dovrebbero rivelarci che cosa accade dopo la morte? Perché sono allacciate in un coito lunghissimo e sempre rinnovato nello spazio all’interno del cuore: caverna protettiva. Ma di che cosa vivono? «Il loro cibo è la massa di sangue all’interno del cuore». Qui, come una cuspide, la metafisica penetra nella fisiologia. Il coito di Indra e Viraj è la veglia – e lo stato che regna alla fine del coito è il sonno: «Perché, come qui, quando si giunge alla fine di un coito umano egli diventa, per così dire, insensibile, così allora egli diventa insensibile; perché questa è un’unione divina, e questa è la felicità suprema». Le due figure riflesse nell’occhio sono servite a Yajnavalkya per addentrarsi nella cavità del Sé e sorprenderlo nella sua costante e sdoppiata attività erotica, che è la mente stessa. E da qui Yajnavalkya si innalza subito all’apice della teologia negativa: « Quanto all’atman, al Sé, non si esprime se non per negazioni: inafferrabile, perché non lo si afferra; indistruttibile, perché non si distrugge; distaccato, perché a nulla aderisce; privo di legami, nulla lo scuote, nulla lo ferisce. Veramente, Janaka, sei giunto al non-timore ( abhaya) ». E qui risuona la parola che designerà la mudra della mano sollevata all’altezza della spalla: il gesto che più di ogni altro è peculiare del Buddha.
Occorre misurare l’audacia della risposta di Yajnavalkya. Poiché parla a qualcuno che sa già molto, ma a cui manca un ultimo passo della conoscenza, non ritiene opportuno ricorrere a parole rassicuranti, né promettere alcunché. Yajnavalkya ha bisogno soltanto di accennare a un dato fisiologico – la figura riflessa nella pupilla’ per derivarne la rivelazione di qualcosa che avvolge il tutto: il Sé come potenza inscalfibile che agisce senza interruzione in ogni vivente, anche se non ne è percepito. Non c’è bisogno d’altro per accedere alla «non-paura», che è l’unica forma della pace. Appena lo ebbe ascoltato, Janaka disse a Yajnavalkya: «Che l’abhaya, la non-paura, la pace sia con te, Yajnavalkya».