Fabio Ferzetti, Il Messaggero 18/1/2010, 18 gennaio 2010
QUEL CAPOLAVORO ATTACCATO DA DUE FRONTI
C’ un film meraviglioso e perduto per sempre che lasciò nei pochi fortunati che lo videro un’impressione incancellabile. Si intitolava La dolce vita ma non era La dolce vita che avremmo visto noi comuni mortali. Era la copia ancora non doppiata che Fellini mostrò a un piccolo gruppo di amici e intellettuali fra cui Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, per avere la loro opinione e prepararsi agli inevitabili attacchi. In quella versione magica e transitoria ogni interprete parlava la sua lingua, l’inglese si intrecciava al francese, al romanesco o allo svedese della Ekberg, gli attori si mescolavano ai non attori e sopra a tutto spuntava la vocina di Fellini che correggeva, suggeriva, incoraggiava, sovrapponendo a quella Babele un concerto di intenzioni ora limpide ora oscure.
Rievocata tempo fa da Bernardo Bertolucci, portato giovanissimo da suo padre a quella proiezione, questa Dolce vita ribollente e perduta resta l’immagine più calzante di quanto accadde in seguito. Come un Nilo in piena infatti quel film smisurato e alluvionale avrebbe fecondato per decenni l’immaginazione degli spettatori trasformando per sempre il paesaggio del cinema e quello del nostro paese. Nessun cineasta, men che meno italiano, aveva mai abbracciato una materia tanto ampia e incandescente. Eppure la genesi di quel capolavoro che il 3 febbraio 1960 fu accolto tiepidamente al Fiamma di Roma per scatenare due giorni dopo un vero putiferio alla ”prima” milanese, con sputi al regista e urla di ”comunista!” contro Mastroianni, è quasi una leggenda a parte.
Ripercorsa anche di recente con maestria dal compianto Tullio Kezich nel Dolce cinema, diario di lavorazione che diventa reportage sull’Italia di quegli anni (Sellerio), uno dei libri più istruttivi (e divertenti!) mai prodotti dal cinema italiano. Poi nel documentario firmato sempre da Kezich con Gianfranco Mingozzi, Noi che abbiamo fatto la dolce vita, in cui protagonisti e comprimari riflettono dopo tanti anni sul significato di quell’avventura. Riuscendo ancora, incredibile, a stupirsi (e a stupirci) per la densità di ciò che vissero.
Oggi naturalmente tutto è cambiato. Nessuno potrebbe nemmeno sognare l’attenzione suscitata dal capolavoro felliniano ancor prima di esistere (come sintetizzò in uno dei suoi celebri strafalcioni il produttore Peppino Amato, «C’è per questo film un’attesa sporadica»). Nessun evento mediatico-culturale, oggi che i media sono così vari e gli intellettuali così intercambiabili, potrebbe avere un impatto paragonabile a questo film che reinventava frammenti di cronaca rimbalzati mille volte sui rotocalchi o in tv (fra le scene ricordate meno spesso c’è quella del morto che resta a terra dopo i tafferugli scatenati dalla diretta tv su un finto miracolo).
Per cui si resta stupefatti a rievocare la massa di attacchi, incomprensioni, anatemi, spesso frammisti a parole d’ammirazione, che circondarono il film. Il primo a spaventarsi fu il produttore Dino De Laurentiis, che proprio non mandava giù il suicidio di Steiner (ispirato allo sceneggiatore Tullio Pinelli da quello del vecchio amico Pavese) e passò il progetto alla strana coppia Angelo Rizzoli-Peppino Amato. Ma su La dolce vita si sparò da più fronti.
La sinistra gli rimproverava il ”decadentismo” e il «ripugnante esistenzial-cattolicesimo di fondo» (Franco Fortini, che peraltro intuiva le qualità profetiche del film). Il Vaticano tuonava contro il clima corrotto e immorale (nel sontuoso volume dedicato a Fellni sempre da Kezich, Rizzoli, compare un ”avviso sacro” con diffida ai fedeli del vescovo di Padova che è una gemma di humour involontario). Toccò a Pasolini, in un intervento memorabile, spiegare perché La dolce vita era «il più alto e il più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni». Anche grazie all’«ottimismo amoroso e simpatetico» dei suoi personaggi sempre «puri e vitali». Anche se l’ultima parola spetta forse all’inconscio dell’autore. Ovvero a quel sogno felliniano, sconcio e infantile insieme, in cui il regista e l’organizzatore Fracassi scortano Valeria Ciangottini, l’angelica ragazzina bionda del finale, in una casa di piacere gestita da Sofia Loren.