Sandro Fusina, 16/01/2010, 16 gennaio 2010
BIBI, BONI, BONNOT E L’ARTE DI ESSERE POVERI NELLA BELLE EPOQUE
Bibi. Recentemente la casa d’aste Christie’s ha messo in vendita un piccolo olio (43x31 cm) su tela incollata su cartone. Veniva da ”un’importante collezione parigina”. Ha realizzato un po’ più di ventisettemila euro, quattro volte la stima del catalogo d’asta. L’autore è Serafino Macchiati (1861-1916), un pittore italiano che fu un illustratore di successo nella Parigi della Belle époque. Seduti a un tavolo del Cafè Procope, il più antico locale di Parigi e forse d’Europa, due dei maggiori poeti di fine Ottocento, Paul Verlaine e Stephane Mallarmé, stanno chiacchierando. Fra di loro c’è un terzo personaggio. Tiene la testa tra i pugni, ha i gomiti appoggiati sulla tavola, non si è tolto il cilindro. Dei tre è quello che impersona meglio il ruolo del poeta. Un’iscrizione a tergo informa che si tratta di Bibi la Purée. Bibi si dirà poeta per tutta la vita, anche se nessuno può vantarsi di avere letto un suo verso. Per tutta la vita racconterà a chi vorrà ascoltarlo la sua intimità con Verlaine. Georges Brassens lo cita in una canzone in cui immagina di seguire il funerale di Verlaine, disperato di non poter essere poeta come lui (’N’importe je suivrai toujours; l’ame énivrée. Folle d’une espérance désespérée Montesquiou-Fézensac et Bibi-la-Purée, vos deux guardes du corp”). Una delle due guardie del corpo di Verlaine (il grande poeta che poteva permettersi di girare per il Quartiere latino vestito da clochard senza perdere un grammo di dignità e rischiando di essere invitato a cena dalle duchesse) era il più estremista dei dandy, il conte Robert Montesquiou-Fézensac, al quale bastava lasciare cadere un’osservazione per decretare il successo parigino di un artista o indurlo a cambiare aria. L’altra guardia del corpo era Bibi-la-Purée, poeta del caniveau, del canaletto di scolo. Nel Quartiere latino Bibi era un personaggio a suo modo famoso. A lui e al suo cilindro senza più lucentezza si era ispirato l’umorista Alphonse Allais per il personaggio del bohémien nullafacente che in un bistrot spende gli ultimi centesimi in assenzio, appena prima che un angelo travestito da avventore gli liquidi uno scudo da cinque franchi per ogni giorno che gli resterà da vivere (per un totale di tre scudi, ovvero quindici franchi). E’ lui il dandy da marciapiede che in una poesia di Jehan-Rictus fa la spola tra Montmartre e il Quartiere latino con all’occhiello un ”horrible bouquet pris à la pubelle”, un orribile mazzolino preso dalla pattumiera. A lui Christian Gury, storico di fatti e fatterelli omofili fin-de-siècle, ha dedicato uno dei suoi libri prolissi (’Bibi-la-Purée, le compagnon de Verlaine”, edizioni Kimé, 2004).
Dell’arte di vivere da povero di Bibi-la-Purée. Umberto Brunelleschi, illustratore italiano già affermato, fu incaricato da Vamba di una corrispondenza illustrata da Parigi. Vamba (Luigi Bertelli, autore del ”Giornalino di Gian Burrasca”, 1908) era il direttore e il fondatore del Giornalino della Domenica, miracolo della stampa periodica per l’infanzia prima dell’affermazione del Corriere dei Piccoli. Brunelleschi, che doveva avere della prima gioventù un’idea davvero disincantata, considerando l’epoca (1906), mandava reportage illustrati non molto convenzionali. Artista, la sua Parigi si riduceva come quella di Bibi-la- Purée, ai due quartieri canonici, la collina di Montmartre e il Quartiere latino. Ai bambini italiani della prima generazione del libro ”Cuore”, che leggevano forse un po’ straniti le sue lettere dalla Ville Lumière, raccontava la nuova moda dei locali notturni a tema. Raccontava delle code che i borghesi parigini (e provinciali in visita) si sorbivano ogni sera per riuscire a entrare al Cabaret du Néant, il cabaret del nulla eterno, un interrato dove, seduti intorno a una bara (in francese bière), i fortunati che erano riusciti a entrare potevano bere un bock di birra (in francese bière) assistendo alla morte e alla decomposizione e alla riduzione a scheletro (si parla di illusionismo naturalmente) di un volontario. Non rinunciava a informare i suoi giovani lettori della nascita di un nuovo genere di spettacolo destinato ad avere sviluppi interessanti, come il Coucher d’Yvette in cui la Yvette di turno, presunta piccinina di sartoria, si spogliava castamente fino ai mutandoni per mettersi a letto. Raccontava (ritraendolo anche, per la gioia dei suoi piccoli lettori) come gli avventori godessero a essere insultati all’ingresso dai camerieri per poi insultare in coro i nuovi venuti nel cabaret di Aristide Bruant, il patron bullo in cappellaccio nero, sciarpa rossa e bastone nodoso, immortalato dal conte bhoème Henri de Toulouse-Lautrec. Si diffondeva soprattutto sul suo incontro in un caffè di rue Monge con lo stravagante Bibi che, forte della sua relazione conclamata con Paul Verlaine, scambiava reliquie del suo idolo per un ”giorno di vita”. L’incontro era inevitabile. Bibi-la-Purée non poteva sfuggire a un grande cacciatore di tipi come Umberto Brunelleschi, Brunelleschi non poteva sfuggire a un grande cacciatore di provinciali come Bibi. Si erano già incrociati in cento locali, già Brunelleschi aveva notato quel bohémien anziano (sfuggito sia alla morgue sia all’accademia; un bohémien anziano, con un grande futuro alle spalle, somiglia molto a un clochard) che sulle panchine del quartiere scriveva incessantemente presunte poesie, con un mozzicone di lapis copiativo, su un quaderno sgualcito. Il bisogno è una molla più forte della curiosità. Fu Bibi ad andare dritto al tavolino di Brunelleschi, con la mano tesa. Non voleva parlargli del tempo, voleva solo pulirgli le scarpe infangate, senza accettare denaro in cambio. Voleva anche far partecipare il grande pittore straniero del suo bene più prezioso, i suoi ricordi del poeta Verlaine, che come lui conosceva i segreti e gli incanti delle parole e come lui aveva girovagato malmesso da un locale all’altro del quartiere. Anzi, per l’illustre artista Bibi era pronto a sacrificare l’ultima reliquia materiale della sua intimità col poeta, la pipa che Verlaine aveva stretto tra i denti. Era il suo possesso più caro, il suo bene più prezioso. Ma se monsieur Brunelleschi la desiderava davvero gliela avrebbe ceduta: era giusto che la pipa che era stata tra i denti di un genio finisse nelle mani di un altro genio. In cambio, per sé, Bibi non voleva che un jour de vie, un giorno di vita. Nel linguaggio poetico di Bibi un giorno di vita era l’equivalente in denaro sonante di una colazione, di un desinare e di una cena. Brunelleschi fu felice di acquisire una reliquia così preziosa e rara in cambio di un comune napoleone d’oro. Solo più tardi scoprì che Bibi metteva in circolazione più pipe di Verlaine di quanti napoleoni coniasse l’Hotel de la Monnaie. Ne aveva cedute almeno cinquecento, senza contare i bastoni da passeggio, sempre appartenuti a Verlaine.
Boni. Stessi anni, stessa città, altri quartieri, altri locali, tutt’altro protagonista. (Una zia, invitata a colazione al Ritz, gli scriverà in un biglietto di ringraziamento: ”Caro Boni, mi sono divertita moltissimo, non ero mai stata in una trattoria”). Ovvero, dell’arte di vivere da povero di Boni(face) de Castellane, conte e poi marchese, rampollo di una delle grandi famiglie storiche di francia. Boni de Castellane non è sconosciuto alla storia della letteratura. Secondo George D. Painter, impareggiabile biografo di Marcel Proust, è una delle persone che hanno contribuito a formare il personaggio di Saint-Loup. ”Vidi, alto, esile, con il collo slanciato, la testa eretta e il portamento fiero, passare un giovine dagli occhi penetranti e la cui pelle era bionda e i capelli così dorati come se avessero assorbito tutti i raggi del sole. Vestito d’una stoffa morbida e biancastra, come non avrei mai creduto che un uomo osasse portare, e la cui leggerezza rievocava, altrettanto che il fresco della sala da pranzo, il caldo e il bel tempo di fuori, camminava svelto. Gli occhi, dai quali cadeva ogni momento un monocolo, erano color del mare. Tutti lo guardarono con curiosità passare; si sapeva che il giovine marchese di Saint-Loup-en-Bray era celebre per l’eleganza… A causa del suo ”chic’, della sua impertinenza di giovane ”leone’’, a causa della sua bellezza straordinaria soprattutto, alcuni gli trovavano un’aria effeminata, ma senza rimproverargliela, giacché si sapeva quanto fosse virile e quanto amasse appassionatamente le donne”. Così il Proust romanziere (’All’ombra delle fanciulle in fiore”, 1919).
Con la firma ”Dominique” l’11 maggio 1903 era uscito sulla cronaca mondana del Figaro un rapido ritratto di Castellane, ospite del salotto che la pittrice Madeleine Lemaire teneva nel suo studio: ”Si direbbe che madame Lemaire abbia preso come motto la frase del vangelo: ”Qui i primi sono gli ultimi’, o meglio gli ultimi sono gli ultimi arrivati, anche se si tratta di accademici o duchesse. Ma madame Lemaire, con una mimica che i suoi begli occhi e il suo sorriso rendono molto espressiva, fa comprendere di lontano al conte di Castellane il suo rincrescimento di vederlo così mal sistemato. Infatti, come tutti, ha un debole per lui… Coraggioso, buono, fastoso senza boria e raffinato senza pretese, egli incanta i suoi partigiani e disarma i suoi avversari (alludiamo ai suoi avversari politici, perché la sua persona non ha che amici). Pieno di riguardi per la sua giovane moglie, si preoccupa della corrente d’aria fredda che potrebbe venirle dalla porta del giardino”. Madame Lemaire, al tempo pittrice molto in voga presso l’alta società, è uno dei modelli della Madame Verdurin della ”Ricerca del tempo perduto”; Dominique è il nom de plume di Marcel Proust nelle sue funzioni di giovane cronista mondano. La giovane moglie che Boni de Castellane si premura di proteggere dalle correnti d’aria è Anna Gould, universalmente conosciuta come la più brutta, ma forse anche la più ricca ereditiera di tutti i tempi. Suo padre è quel Jay Gould che partito dal men di nulla si è fatto finanziere, speculatore sull’oro, magnate delle ferrovie (possiede un quindicesimo dell’intera rete ferroviaria degli Stati Uniti) e del telegrafo. E’ un uomo intraprendente e ingombrante. L’iniziativa (fallita) di rapire il sedicente lord Gordon-Gordon, che gli aveva truffato un milione di dollari (1872), per costringerlo a onorare i suoi impegni, per poco non provocò una guerra tra Stati Uniti e Canada. Grazie alla fortuna di Anna, Boni poté vivere per dieci anni all’altezza dei suoi gusti. Fece costruire un palazzo in marmo rosa nel XVIeme arrondissement, acquistò il castello di Marais con milleottocento ettari di terreno, rastrellò le opere d’arte e i bibelot più preziosi senza neppure informarsi del prezzo. Si dedicò soprattutto alla costosa arte di offrire ricevimenti a tema, dove tappezzerie, porcellane, cristalli e argenti venivano acquistati per armonizzarsi a un’idea e quindi per essere usati una sola volta. In sole composizioni floreali spese da un unico fiorista più di cinquecentomila franchi oro (avrebbe potuto comperarsi venticinquemila pipe di Verlaine). Con modestia, a un sovrano che si complimentava per lo slendore della sua maison rose disse: ”Non è mia, maestà. E’ la casa di mia moglie”.
Dopo dieci anni di matrimonio e tre figli, Anna, più preoccupata per la sorte del suo patrimonio che per gli svaghi sentimentali del bel Boni ottenne il divorzio. Gli portò via figli, case, castelli e accesso al conto in banca. Gli tolse anche la possibilità di sposarsi di nuovo con un bel patrimonio. Da buon cattolico, rappresentante oltretutto in Parlamento della destra tradizionalista, Boni non poteva risposarsi se il matrimonio non veniva dichiarato nullo. Anna, che si era risposata prontamente e civilmente con il di lui cugino, il marchese di Talleyrand-Perigord duca di Sagan, non voleva, crediamo per dispetto, l’annullamento. Già al momento delle nozze con Boni aveva scelto di conservare la fede protestante per garantirsi la possibilità di divorziare. Ciò permise a Boni di fare istanza alla Sacra Rota per vizio di consenso. La causa fu la più laboriosa e la più clamorosa che la curia romana dovette affrontare dai tempi del divorzio di Enrico VIII. Il conte di Castellane fece viaggi a Roma, fu ricevuto da papa Pio X ( ma non gli parlò direttamente della sua faccenda, delicatezza che Sua Santità apprezzò) contattò personalità importanti della chiesa, dal cardinale Pietro Gasparri, non ancora segretario di stato, a monsignor Eugenio Pacelli, per il momento soltanto diplomatico a Berlino. Di ricorso in contro ricorso, per cinque volte il tribunale e Papa Benedetto XV si pronunciarono in modo alterno sulla validità del matrimonio. Quando giunse la sesta e ultima sentenza, che negava l’annullamento e confermava valido il matrimonio, il marchese di Castellane aveva ormai collaudato una sua ”art d’etre pauvre”. Così intitolò la biografia, che uscì in francese nel 1925 e che la casa editrice Excelsior 1881 pubblica ora in italiano con la traduzione di Anna Benucci Serva.
Povertà e ricchezza, si sa, sono concetti relativi. Anche se non poteva più aspirare al record di uomo più prodigo di Francia, il bel Boni aveva pur sempre una ricca famiglia disposta a ospitarlo, aveva sempre un fratello pronto a prestargli un bel cavallo per caracollare al Bois de Boulogne. Ebbe nei primi momenti fastidi e delusioni. Per strada i creditori cercavano di intercettarlo, i debitori di evitarlo. Di regola gli amici per i quali aveva avallato prestiti non onoravano le scadenze e lo lasciavano a combattere con gli ufficiali giudiziari al posto loro. Ma Boni aveva gran nome, bell’aspetto, buon gusto. Aveva soprattutto una grande opinione di sé. Una curiosa signora, dai tratti volpini e dal corpo voluttuoso, di professione commercialista ante litteram o brasseuse d’affaires, lo tolse dai peggiori impicci. Ai bei tempi di Anna, Boni possedeva un giornale. Le Soir era il principale strumento di sostegno alla sua politica tradizionalista. In occasione dell’affare Dreyfus era stato acceso colpevolista, per nulla preoccupato del quoziente di antisemitismo che la posizione comportava. Ora militava tra i monarchici e i cattolici tradizionalisti, ma era abbastanza spregiudicato per allearsi in Parlamento con chiunque appoggiasse la sua campagna contro l’occupazione coloniale del Marocco, l’ennesimo sopruso di una Repubblica, ai danni questa volta di una monarchia che per secoli aveva saputo resistere alla prepotenza turca. L’esperienza con Le Soir gli suggerì di dedicarsi al giornalismo. Gli bastarono i primi rendiconti per capire che non era una professione all’altezza delle sue esigenze economiche. Con maggiore gusto e competenza, a suo dire, rubò il mestiere a quel Robert di Montesquiou-Fézensac che abbiamo visto con Bibi-la-Purée al funerale di Verlaine. Nelle vesti di arbitro di eleganza più che di commerciante, acquistò dagli antiquari pezzi rari, per proporli a prezzo debitamente maggiorato, a conoscenti facoltosi, soprattutto americani. Tra i suoi clienti c’era anche la famosa principessa di Polignac, nata Winnaretta Singer, ventesima o giù di lì figlia del re delle macchine da cucire, concorrente di Anna Gould per il titolo di ereditiera più brutta e più ricca della storia; c’era persino la sua ex moglie, alla quale riusciva a fare arrivare qualche raro pezzo Boulle a completamento della collezione che lui stesso aveva iniziato alla Maison Rose. Sempre disposto a cederle tutte arredate a un acquirente in cerca di eleganza prêt-à-porter, allestiva per sé sempre nuove case. Vi riceveva, con ostentata eleganza, anche se non più con lo sfarzo di un tempo, personalità di gran nome dell’arte, della politica. Vi riceveva naturalmente quelli dei suoi pari che accettavano la sua ospitalità. Dai tempi della comune di Parigi (e forse da prima) la grande aristocrazia si era chiusa dietro la facciata severa dei palazzi del Sixième a condurre una vita così austera da fare invidia agli antichi nemici ugonotti.
Bonnot. Senza le armi in pugno, l’unico contatto che Jules Bonnot ebbe con la buona società fu in Inghilterra, dove si era rifugiato per lasciare, come si dice nelle sceneggiature cinematografiche, calmare le acque. Per qualche tempo (poche settimane pare) sfruttò il suo talento per la meccanica come chauffeur di sir Arthur Conan Doyle, che il problema della povertà lo aveva risolto inventando l’investigatore positivista e idiosincratico Sherlock Holmes. Jules nacque in una famiglia operaia nel 1876, dopo la comune di Parigi e dopo la pubblicazione a Parigi del ”Capitale” di Karl Marx, quando non c’era più il terzo Napoleone ad assecondare le organizzazioni operaie che aveva preso invece a parlare di lotta di classe. Come in un romanzo sociale dell’epoca, perse la mamma a cinque anni. Crebbe ribelle, adolescente fu schedato per rissa. In tre anni di servizio militare non imparò la sottomissione, ma divenne esperto di meccanica riparando i camion dell’esercito; imparò, divertendosi, a sparare con precisione. Congedato si impiegò come meccanico, si mise in vista come irriducibile nelle rivendicazioni operaie. Incontrò una ragazza, la sposò, deciso a darsi una calmata, a mettere la testa a posto. Nacque una bambina (circola persino una presunta fotografia in studio della famigliola, agghindata secondo il decoro della minuscola borghesia del tempo). Ma la bambina non sopravvisse a lungo e Jules Bonnot tornò il ribelle di sempre, più esarcebato che mai. Ebbe tuttavia un altro figlio. Per sfuggire alla gendarmeria e al passato, fuggì con la famiglia in Svizzera. Fu ospitato da un compagno sindacalista che gli rubò l’amore della moglie e del figlio.
Scoprì allora l’anarchia individualista. Era tempo di crisi economica, i poveri proliferavano e si facevano minacciosi, almeno nella percezione dei borghesi. Le strade e le case non erano sicure. C’erano esempi cui ispirarsi. Più che Ravachol, il vendicatore spietato entrato nelle canzoni anarchiche, c’era Alexander Jacob, conosciuto come Marius Jacob (fu il modello cui lo scrittore Maurice Leblanc si ispirò molto liberamente per il personaggio del ladro gentiluomo Arsène Lupin). Jacob non era di nascita un gentiluomo. Era nato anche lui operaio, aveva fatto il marinaio, persino il pirata, anche se presto si era reso conto che era un’attività troppo brutale e sanguinaria. Aveva scelto di dedicarsi a svaligiare le case. Con tre principi chiari in testa: non usare mai le armi, se non per difendere la propria libertà; rubare solo ai parassiti, cioè a padroni, militari, giudici e preti, e mai a coloro che svolgevano una professione utile, come dottori, architetti e artisti; non servirsi mai come complici di anarchici militanti, ma solo di ladri e di fuorilegge comuni, i quali dovevano però accettare che una parte del bottino andasse a finanziare l’attività dei rivoluzionari anarchici.
Oltre allo spirito organizzativo e a una spiccata attitudine al comando, Jacob metteva nelle sue imprese una particolare attitudine per la meccanica che gli permetteva di aprire le casseforti più sofisticate. Come si sa, con tutte le sue precauzioni e tutti i suoi principi, non durò a lungo in servizio attivo e finì per passare molti anni alla Cayenna a scontare una pena per omicidio. Bonnot era più militante e più approssimativo. Per procurarsi i soldi poteva stamparne di falsi; poiché sparava bene, non aveva remore a seminare morti; soprattutto amava lavorare con i compagni di fede anarchica (ancora si discute quale parte Victor Serge, il rivoluzionario e intellettuale russo, avesse avuto nelle imprese della banda). A Jacob lo accumunava quell’amore della meccanica che lo rese famoso. Senza la passione per le automobili le sue imprese, disperate e sanguinarie, avrebbero finito per confondersi con gli innumerevoli sussulti rivoluzionari che insanguinarono gli anni della Belle poque. Poiché le vittime della banda furono poliziotti e gente comune, Bonnot non avrebbe avuto diritto a figurare nel novero dei grandi terroristi, gli assassini di re e presidenti, con Luigi Lucheni, che aveva assassinato l’imperatrice Sissi sul lungolago di Ginevra, perché non aveva trovato di meglio; con Gaetano Bresci che era rientrato dall’America con lo sconto per i visitatori dell’esposizione di Parigi del 1900 per vendicare i morti dei moti del novantotto; con Sante Caseario che all’inaugurazione della fiera di Lione aveva ucciso il presidente Sadi Carnot con un coltello avvolto in una supplica, con gli autori dei sei attentati falliti e del settimo riuscito contro lo zar Alessandro II.
Ma a Bonnot la storia riconosce un’invenzione destinata ad avere molto successo. Gli piacevano le belle automobili. Aveva cominciato a rubarle per spacciarle su un mercato clandestino. Aveva intuito però che le macchine potevono da fine diventare mezzo. Se ne servì per un po’ come biglietto da visita, per avvicinare le sue vittime facoltose. Sviluppò ulteriormente l’idea dell’auto come mezzo e finì per inventare le rapine con l’auto, senza la quali il gangsterismo americano e molto cinema sarebbe stato impensabile.