ALESSANDRO PENATI, Repubblica 16/1/2010, 16 gennaio 2010
SE IL FALLIMENTO DIVENTA SUCCESSO
Ironia della sorte, il miglior bene da esportazione del capitalismo americano rimane la gestione dei fallimenti: "Fare del fallimento un successo", intitolava recentemente l´Economist. Negli Usa, il fallimento non è un´infamia, ma un´eventualità implicita nel rischio di impresa. Partendo dall´idea che l´impresa valga di più da viva che da morta, la legge privilegia la continuità sulla liquidazione. Continuità però, non significa privilegiare il mantenimento di occupazione, impianti e vertici aziendali; ma ristrutturare profondamente col solo obiettivo recuperare competitività nel minor tempo possibile. La ristrutturazione è guidata dai creditori, perché il rilancio aziendale è la loro migliore tutela. Il Tribunale interviene approvando rapidamente la ristrutturazione (solo 45 giorni per il fallimento General Motors), e garantisce il patrimonio aziendale.
Guardiamo con ammirazione allo sbarco di Fiat negli Usa. Ma da noi sarebbe impossibile gestire un fallimento come quello di Chrysler. Nonostante quattro leggi in 6 anni, le nostre procedure fallimentari rimangono farraginose e inefficienti; qualcosa da evitare, piuttosto che strumenti da utilizzare. L´amministrazione straordinaria per le grandi aziende ha fatto guadagnare in rapidità, sottraendo la nomina del commissario alle lungaggini dei Tribunali; ed efficacia, attribuendogli ampi poteri per la cessione di attività e la ristrutturazione del debito. Ma assegnando la nomina del commissario al ministero per lo Sviluppo Economico, si attribuisce un ruolo alla politica, i cui obiettivi mal si conciliano con le ristrutturazioni aziendali. Così l´efficacia della procedura dipende dalle capacità dei commissari e dalla loro indipendenza: per un caso da manuale come Parmalat, c´è anche Alitalia.
L´amministrazione straordinaria è indice però che lo stato di crisi aziendale è durato troppo a lungo: la ristrutturazione andava fatta prima. Così, per facilitare e incoraggiare le ristrutturazioni ai primi stadi della crisi, nel 2007 la legge ha introdotto il 182 bis: sulla falsariga americana, la possibilità di un accordo preliminare, liberamente negoziato tra debitore e almeno il 60% dei creditori. Il Tribunale non interviene nella ristrutturazione: si limita ad approvare la validità economica dell´accordo, e l´impegno a saldare i creditori che non aderiscono. Rimuove il rischio delle azioni revocatorie e pone l´azienda al riparo dai creditori.
Ma la distanza dal modello americano rimane enorme. Da noi i tempi delle crisi aziendali continuano a misurarsi in anni. Le banche, i principali creditori, e i vertici aziendali, quasi sempre azionisti, spesso preferiscono rinviare la ristrutturazione, evitando di far emergere la crisi, in attesa di tempi migliori. Le banche, per non contabilizzare minusvalenze; i vertici, per non mettere a repentaglio controllo e poltrona. Alla fine l´accordo arriva, ma solo quando si materializza lo spauracchio del Tribunale, come nel recente caso Risanamento.
Per la legge, i creditori devono decidere sulla base di informazioni fornite dal debitore. Un vantaggio eccessivo per chi ha accesso privilegiato ai dati aziendali. Per gli altri creditori, meglio accettare un accordo basato su informazioni incerte che un fallimento dai risultati ancora più incerti. Dovrebbe essere invece il Tribunale a richiedere una radiografia indipendente di attività e debiti, con poteri di verifica dei dati, assicurando la par condicio informativa. Problema rilevante visto la struttura complessa dei gruppi italiani: nel caso Burani, una holding privata controlla una holding quotata, che controlla la Family Holding, che controlla Fashion Group, quotata, che controlla Antichi Pellettieri, pure quotata; più un´altra holding che controlla due altre società a Piazza Affari. Capire dove stiano e quanto valgono debiti e attività, è un´impresa titanica.
Infine, spetta al debitore, non ai creditori, definire il piano di ristrutturazione. In un paese dove il credito è prevalentemente bancario, concentrato in pochi gruppi, il risultato può essere determinato più dalle relazioni dell´azionista-imprenditore con le banche, che dall´efficienza; in nome della quale, spesso sarebbe necessario rimuovere i vertici dell´azienda.
Migliorare la legge fallimentare non risolverebbe i problemi del capitalismo italiano. Ma sarebbe comunque un piccolo passo avanti.