Vincenzo Pardini, La Stampa 16/1/2010, 16 gennaio 2010
L’ULTIMA, MATTA CENA CON TOBINO
Non ho mai raccontato l’ultima volta che andai a cena con Mario Tobino. Giorni dopo sarebbe partito per Agrigento, a ritirare il premio Pirandello. Una gran serata. Lo applaudivano anche i giovani, e lui sorrideva felice. Sapeva stare in pubblico e sapeva attirarsi ammirazione e simpatia. In questo, il suo maestro era stato l’attore Ettore Petrolini, rievocato nel libro Sulla spiaggia e al di là del molo. Bambino, fuggiva da casa per raggiungere il teatro Eden di Viareggio. Estasiato, avrebbe assistito alle recite dell’artista che, nella veste di Nerone, non mancava di fare la satira a Mussolini. Morì la notte della premiazione. Ad Agrigento, mi disse, sarebbe andato volentieri. Ma lo disse con malinconia. Stato d’animo che lo colpiva spesso negli ultimi tempi. Ritornare indietro con la memoria, raccontando episodi e personaggi del passato, sorseggiando un bicchiere di vino rosso con gli amici, lo aiutava a allontanarsene. Negli scrittori, sentimenti e stati d’animo sono, sempre, molto vivi. Racconti e romanzi nascono da questi. Tobino aveva preso a passarli in rassegna, a farci i conti. In quel periodo aveva corretto le bozze di Una vacanza romana, opera uscita postuma.
L’idea del libro era nata dal colloquio con due infermiere che lavoravano nell’ex psichiatrico di Maggiano, quando lui era ancora in servizio. A quell’incontro volle anche me, e che fossi io a porre domande: dovevo accertarmi di persona come stavano gli ammalati prima della 180. Non c’era coercizione, i pazienti erano lasciati liberi nel comprensorio del nosocomio e, soprattutto, curati e assistiti. Mi diceva che io, come scrittore, dovevo toccare con mano, per meglio raccontarlo, com’era la situazione, perché uno scrittore - sottolineava con voce severa - ha il dovere di raccontare la verità. Le due infermiere parlavano degli assistiti come di persone di famiglia; alcuni di loro, dopo l’avvento della 180, erano morti a seguito di incidenti e altre disgrazie: nessuno li seguiva, li curava.
Tobino ricordava che nell’85, secondo i dati usciti al Convegno della Fondazione Italiana per lo studio della schizofrenia, tenutosi a Faenza, il numero degli psichiatrici morti per abbandono si aggirava da due a tremila. A quel convegno non aveva potuto partecipare, ma inviò al collega psichiatra Armellino Visani uno scritto intitolato Diario di un vecchio medico di manicomio, nel quale raccontava la brutta morte di molti dei suoi ex ricoverati. Una delle infermiere gli ricordò quanto fossero belle le cartelle cliniche che scriveva su di loro: sembravano novelle. Ricordo il suo volto farsi serio; disse che, forse, ne aveva ancora nello studio dell’ex manicomio. Le andò a cercare e le inserì in Una vacanza romana. Se rievocare il passato, e le trame di vita che gli avevano ispirato i suoi libri, inclusi quelli di guerra (Il deserto della Libia, Il perduto amore e Il clandestino) quasi lo rasserenava, inducendolo talvolta a sorridere, quando parlava delle storie del manicomio diveniva triste.
La stessa tristezza che manifestava per un muro innalzato nel cimitero di Vezzano Ligure, dirimpetto alla tomba della madre, la quale - aggiungeva - non avrebbe più visto il mare. Quella costruzione gli aveva fatto male, inducendolo a pensare che fosse venuto meno il rispetto per i morti e la loro memoria. Anche lì, per meglio farmi vedere, avevamo progettato di andare. Sua madre è la protagonista de La brace dei Biassoli, che Tobino racconta alla stregua di una regina. La sua regina. Quindi, avrebbe dovuto vendicarne l’affronto, con un racconto o una poesia in cui si narrasse l’ombra di quel muro sulla tomba. Non ne ebbe il tempo. Ne teneva la fotografia davanti allo scrittoio, nella casa di Sant’Anna, alle porte di Lucca, dove, andato in pensione, si era trasferito dall’ex psichiatrico. Ma a Maggiano tornava ogni giorno: il grosso della posta, tra cui le bozze dei libri, gli arrivavano lì. Poi era un modo per incontrare i degenti che vi erano rimasti. Con i quali s’intratteneva a conversare. Alcuni sono ancora vivi. Di recente, a uno di questi, ho provato a ricordarglielo.
Subito ha cominciato a parlarne, dicendo quanto - parole sue - era bravo e buono, il dottor Tobino. Uno alla mano, che trattava gli ammalati alla pari. Ma, aggiungo io, con qualcosa in più: una sensibilità e un amore che arrivavano nel profondo di chi gli era di fronte. Anche dei cosiddetti furiosi. Uomini agitati, maneschi, guardati a vista dagli infermieri. Un giorno andammo a trovarli. Erano in un lungo corridoio; gli infermieri di sentinella, individui robusti, abituati al lavoro in campagna. Dovevano vigilare che i furiosi non si accapigliassero o non facessero del male a se stessi. C’erano quelli che, presi da raptus, battevano la testa negli spigoli dei muri, oppure si davano pugni nelle tempie; altri che raccontavano storie di incubo e di violenza. Uno, che si definiva ingegnere, spiegava che il suo braccio era uno scudo spaziale, dal quale poteva vedere tutte le guerre del passato e del futuro. Se qualcuno l’avesse contraddetto, si sarebbe alterato. Tobino si intrattenne con loro, e presto si instaurò un’atmosfera serena. Un infermiere mi disse che era sempre così: al dottor Tobino, di fronte ai pazzi, bastava lo sguardo. Poi andammo dalle donne. Non c’era rumore né violenza. Ma un silenzio insolito. Quiete, se ne stavano sedute sui letti o in poltrona. Una aveva tra le mani uno specchio e si guardava. Un volto lungo, scarno, pallido e i lunghi capelli candidi abbandonati sulle spalle come una ragazzina. Un’altra, il volto rosso e sorridente, ci venne incontro: voleva salutare il dottore, col quale si appartò parlandogli piano. Soddisfatta, sorrise anche a me.
Per quaranta anni, era stato questo il mondo dello scrittore. Aveva condiviso la sua vita con quella dei pazzi. C’erano momenti che non resisteva, che doveva evadere. Allora raggiungeva la sua Viareggio, e lì incontrava gli amici. Ma, all’indomani, sarebbe tornato nella sua stanza, nel suo reparto. Il mattino lo dedicava agli ammalati, il pomeriggio alla scrittura. Dalle finestre, vedeva uno scorcio di campagna e, d’estate, gli giungeva il frinire delle cicale, così frequente nei suoi testi. Quando era di turno nel pomeriggio, per spezzare un poco la monotonia, poteva andare qualche volta al bar, poco lontano. Ma, da quando aveva avuto l’infarto, ordinato un caffè, ne beveva soltanto un paio di cucchiaini. Poi lo gettava. Né fumava più. Non parlavamo quasi mai di scrittori e di letteratura. Parlavamo della vita. Lui mi raccontava la sua, spesa a capire la guerra cui aveva partecipato, la Resistenza, la follia. Di notte, m’accadeva di passare spesso davanti casa sua: la luce era accesa fino a tardi. Ma non scriveva. Leggeva la Divina Commedia. Dante, il suo grande interlocutore.
Quella sera, l’ultima, che andammo a cena, non andammo al solito ristorante: La Cantina di Carignano degli amici Giuliano e Lida. Era chiuso per turno. Ne scegliemmo un altro, sempre in quelle campagne. Tornando indietro, mentre guidavo, persi la strada, non perché non la conoscessi, ma perché fui irretito dal racconto che Tobino faceva di sé, del suo passato. Mi ero perso tra le sue parole e una strada che costeggiava un torrente. Glielo dissi. Lui continuò a raccontare. Storie ora tristi, ora allegre. Storie che moriranno con me. Fanno parte di un patto di amicizia che è patrimonio dell’anima. Mi piace immaginare che il nostro viaggio continui.