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 2010  gennaio 13 Mercoledì calendario

Nel ghetto di amianto a Eboli Parte lo sgombero degli stranieri. In 400 in una ex fabbrica. «Non ce ne andremo, avete bisogno di noi»

Nel ghetto di amianto a Eboli Parte lo sgombero degli stranieri. In 400 in una ex fabbrica. «Non ce ne andremo, avete bisogno di noi». EBOLI (Salerno) - Tutta questa gente morirà male. Neppure il passaggio attraverso la breccia nel muro e il ritorno a un orizzonte fatto di frutteti e campi coltivati a broccoli riesce a togliere dalla testa un pensiero nefasto. Una volta, tanto tempo fa, nell’ opificio Mellone ci facevano le conserve di pomodoro. Adesso è una trappola per uomini divenuti inconsapevoli topi. L’ amianto nella sua versione peggiore, il micidiale polverino che strazia i polmoni, è ovunque. In alto, penzolante dagli scheletri dei capannoni, e in basso, sparso sui pavimenti di cemento. I materassi sono appoggiati su lastre di Eternit sbriciolate, la piccola moschea è rivestita con l’ ondulato proibito ormai dal 1986 perché cancerogeno, come le pareti di tutte le altre baracche. All’ interno, una piccola foto della Mecca è appesa su un’ altra lastra dello stesso materiale. Anche il bancone della baracca che funge da bar è in Eternit. Ma i quattrocento immigrati marocchini e algerini che da anni vivono qui la stanno già rimpiangendo, questa camera a gas in aperta campagna. Ieri mattina sono arrivati i carabinieri, per dare il preavviso di sfratto. «Domani chiudiamo tutto, ve ne dovete andare». Ci si stava bene, dicono. «Calmo, tranquillo, c’ era spazio per tutti». Cinquantamila metri quadrati di archeologia industriale, ventimila dei quali coperti, almeno fino al 1980, prima dell’ abbandono, del degrado, e della mancata bonifica di un luogo pericoloso anche per chi sta fuori e ne respira l’ aria. La fabbrica sulla Statale 18, località Santa Cecilia, una frazione di Eboli con il cuore rivolto a Paestum e Battipaglia, sarà la prima. Gli «sgomberi assistiti» decisi dal Viminale cominciano da qui e le ragioni sembrano abbastanza evidenti. Branchi di cani randagi si aggirano solcando enormi pozzanghere, il selciato a ridosso delle casette di amianto è una specie di latrina a cielo aperto, resti di carcasse di animali sono sparsi ovunque. Gli inquilini ne parlano già al passato, senza disperazione però. Un altro posto lo trovano. Sanno bene di vivere in una zona, la Piana del Sele, che è il Nord del nostro Sud. Tanta agricoltura, qualche industria, un commercio che va veloce e il mare a poca distanza. Negli anni, lo sviluppo dell’ area ha messo a disposizione molti «contenitori», fornaci e fabbriche dismesse, centinaia di casolari abbandonati. Un perfetto esempio di vasi comunicanti. Se ne svuota uno, subito se ne riempie un altro, nuovo serbatoio di lavoro nero, da queste parti gestito da caporali marocchini, i «nuovi ricchi». A novembre è stato sgomberato il ghetto di San Nicola Varco, adesso toccherà a questo. «Ma non ce ne andremo, in fondo qui si sta bene e c’ è bisogno di noi» spiega il «barista» Azouz. Nessuno degli inquilini dell’ ex opificio sulla statale 18 ha il permesso di soggiorno. A lavorare sono quelli che si fanno vedere soltanto a tarda sera, in sella alle biciclette che usano per andare nei campi. Gli altri stanno qui dentro. Divisi in due colonie che si guardano in cagnesco, gli algerini confinati nei ruderi a ridosso dell’ entrata, i marocchini «padroni» degli scheletri dei capannoni. Sopravvivono, in un microcosmo malato, da film postatomico venuto male. «Nel 2008 - racconta Kaddour, giovanissimo, algerino - i carabinieri ci avevano cacciato dicendo che lo facevano per il nostro bene. Dopo qualche mese siamo tornati». Fatiha si alza dal tavolino del bar «Evolution», proprio di fronte alla questura di Battipaglia, per salutare il suo amico Said. Falegname, marocchino come lei. L’ uomo porta sulle spalle una sacca con tutte le sue cose, qualche vestito, una caffettiera. la seconda volta che lo cacciano, prima San Nicola Varco, ora l’ ex opificio. Parte, destinazione Reggio Calabria. Lei invece resta, fa la mediatrice culturale, ha fondato una associazione che si chiama «Mondo a colori». Ha 34 anni, è convinta che «una integrazione gentile» sia possibile. La Piana del Sele, dice, non è Rosarno, neppure Castel Volturno. Le tensioni sono più stemperate, la camorra è meno invasiva che altrove. «Non sono neppure contraria agli sgomberi. Là dentro si vive come animali e il degrado "chiama" anche tanti delinquenti. Ma ci deve essere una alternativa. Bisogna trovare un posto decente dove mettere quelli che lavorano, anche se non hanno il permesso di soggiorno. Altrimenti è solo ipocrisia». L’ ex fabbrica Mellone intanto si svuota. Il preavviso ha funzionato. Gli immigrati camminano lungo la Statale, con passo lento. Kaddour trascina con sé una lastra di Eternit, come se fosse materiale di pregio, da conservare o rivendere. «Ma lo sai che quella roba uccide?». La risposta è un sorriso rassegnato. Gli serve da tetto per stanotte. E la salute non è proprio in cima ai suoi pensieri. RIPRODUZIONE RISERVATA