Giovanni Caprara, Corriere della Sera 15/1/2010, 15 gennaio 2010
2 articoli Haiti è su una «zattera». In movimento. «Haiti è una delle zone più a rischio della Terra in fatto di terremoti
2 articoli Haiti è su una «zattera». In movimento. «Haiti è una delle zone più a rischio della Terra in fatto di terremoti. Lo racconta la sua storia, lo mostrano le mappe geologiche dove si vede l’isola al bordo di una piccola placca stretta fra altre gigantesche. In gioco ci sono forze straordinarie capaci di distruzioni immani quando si manifestano». Gianpaolo Cavinato, dell’Istituto di geologia ambientale e geoingeneria del Cnr, ha studiato i movimenti sismici nei continenti, talvolta li ha inseguiti con impressioni così forti difficili da tradurre in parole. Negli ultimi cinquecento anni nell’area si sono già verificati 12 terremoti più violenti dell’attuale superando i 7,5 gradi della scala Richter. La crosta della Terra è suddivisa in tanti pezzi che i geologi chiamano placche con uno spessore variabile da dieci chilometri a oltre settanta, a seconda dal luogo, negli oceani o sui continenti. Le placche si scontrano fra loro, alcune si inabissano sotto le altre, e altre ancora scivolano sullo stesso piano e dove vengono a contatto il movimento sviluppa energia. Questo accade lungo le faglie, cioè le fratture, che segnano la spaccatura della crosta. Haiti emerge dalla placca caraibica che è come una zattera in moto verso est. A nord si scontra con la grande placca nordamericana in viaggio invece verso ovest alla velocità di 2 centimetri all’anno e a sud con la altrettanto estesa placca sudamericana che s i sposta a nord-ovest di 1,5 centimetri all’anno. Quindi la «zattera» si trova stretta fra imponenti masse che agiscono di continuo sul suo territorio. Ma non basta. La stessa placca caraibica è percorsa al suo interno da faglie minori che aumentano sia i rischi, sia le forze in gioco. Su una di queste è addirittura collocata la capitale di Port-au-Prince rimasta vittima di imponenti distruzioni. Il suo territorio è infatti diviso in due parti in movimento nella stessa direzione ma con velocità diverse intorno a 70 millimetri all’anno. «Nel continuo scivolare strette fra loro – spiega Cavinato – accumulano un’energia che ad un certo punto deve liberarsi ma non si sa dove e quando». Questa volta il punto sotterraneo in cui si è scatenata la violenza distruttrice, l’ipocentro come lo chiamano i geologi, era a 10 chilometri di profondità e a 16 chilometri dalla capitale. Santo Domingo, al contrario, dall’altra parte dell’isola, è in una posizione meno pericolosa perché le due faglie esistenti sul territorio della Repubblica Dominicana restano lontane, transitando una a nord e l’altra marginalmente a sud. La città, dunque, è meno soggetta a rischi. E Il terremoto è rimasto lontano. Ma da dove arriva la forza che fa muovere senza sosta le placche della crosta terrestre? «Il nostro pianeta è come una macchina termica’ precisa lo scienziato’ con un cuore incandescente. proprio il calore che ha al suo interno ad alimentare un’energia capace di spostare le placche». Così il volto della Terra continua a cambiare e a rimodellarsi. Circa 300 milioni di anni fa c’era il supercontinente unico, Pangea, che lentamente si è diviso nei continenti attuali. Ma non era la prima volta che accadeva. Per il nostro pianeta è un fatto ciclico e già in precedenza si era verificato: insomma, è un continuo comporsi e scomporsi proprio grazie al calore che, come in una pentola, quando bolle sposta il coperchio. «La regione dei Caraibi è tra le più calde – sottolinea Cavinato – e la prova sta anche nelle catena di vulcani attivi presenti lungo la costa pacifica del Nicaragua. Un dozzina di bocche di fuoco che testimoniano dei potenti scontri geologici in atto nelle profondità». Gli stessi specialisti della sede dell’Onu crollata avevano evidenziato i rischi legati alle faglie pianificando interventi e costi. Mai ascoltati. proprio risalendo lungo la linea dei vulcani che si incontra la famosa faglia di Sant’Andrea che separa la placca nordamericana dalla placca pacifica. qui che si aspetta il Big One, il super terremoto che potrebbe scuotere disastrosamente la costa californiana riportando alla memoria il tremendo ricordo di San Francisco con il tragico mattino del 18 aprile 1906 e l’imponente incendio che fece più vittime del sisma. In quell’occasione si misurò uno spostamento della faglia di 6,5 metri. Ma più recentemente, e ripetutamente, la terra ha tremato a Los Angeles. Nel 1994 ci furono una settantina di vittime e anche nel luglio 2008 il fenomeno seminò paura. Anzi alcuni scienziati hanno interpretato quest’ultimo come un preavviso del Big One. Proprio per cercare indizi del suo arrivo i geologi americani hanno scavato un buco, una perforazione sino a 3,2 chilometri di profondità vicino alla cittadina di Parfield, tra San Francisco e Los Angeles. L’operazione, nota come «Safod Project» è condotta dal Geological Survey per prelevare campioni del suolo in prossimità della faglia e capire nello studio delle loro caratteristiche se manifestano segni utili a qualche previsione. «Purtroppo possiamo ancora fare ben poco per anticipare lo scatenarsi di un sisma – dice con amarezza Cavinato ”. Ci limitiamo a misurare e valutare gli spostamenti superficiali del suolo o a cogliere qualche indicazione in profondità per tentare, ad esempio, di calcolare l’accumulo di energia. Sono dei tentativi – aggiunge – perché le faglie sono lunghe centinaia e centinaia di chilometri e studiando un solo punto non possiamo decifrare come e dove i fenomeni possono accadere e con quali caratteristiche». Qualche aiuto ora arriva anche dallo spazio e con i satelliti Gps è possibile sorvegliare lo slittamento delle superfici. Indagini più sofisticate si conducono con i satelliti Lageos della Nasa e dell’Asi italiana facendo rimbalzare nello spazio un raggio laser e calcolando quanto i continenti si separano fra loro. Adesso c’è la frontiera più avanzata dei satelliti radar attraverso i quali si tengono sotto controllo le deformazioni del suolo. La Protezione civile italiana ha già chiesto all’Agenzia spaziale italiana Asi di scandagliare l’area di Haiti con la costellazione dei satelliti radar «CosmoSkymed» le cui immagini sono in corso di elaborazione dalla società «e-Geos». «Per una stima della situazione stiamo effettuando anche un confronto con le immagini della zona raccolte nell’aprile scorso – commenta Alessandro Coletta, responsabile della missione in Asi – e con i continui sorvoli dei giorni prossimi forniremo agli scienziati una fotografia delle modifiche avvenute. Sono dati utili per interpretare meglio la natura geofisica dell’area e possono essere preziosi, speriamo, per il futuro». Giovanni Caprara, Corriere della Sera 15/1/2010 «Che rabbia vedere quei crolli». «Il grande numero di vittime a Haiti purtroppo dipende soprattutto dagli edifici in cui è stata costretta ad abitare la popolazione». Con tristezza Gianmichele Calvi dell’Università di Pavia e direttore del Centro europeo di rischio sismico commenta le notizie in arrivo dall’isola caraibica. E la violenza del terremoto? «La storia sismica della zona è ben nota ma si è continuato a costruire ignorando la natura. Ciò che mi stupisce di più è vedere crollati la sede dell’Onu, il palazzo presidenziale a due piani e addirittura gli ospedali» Perché è sorpreso? «Sono la dimostrazione che anche fabbricati recenti sono stati costruiti ignorando qualsiasi regola. Sono convinto che un terremoto uguale negli Stati Uniti o in Giappone non avrebbe provocato più di qualche decina di vittime. Come ha potuto, mi chiedo, l’Onu permettere l’edificazione del suo palazzo senza accertarsi che il progetto fosse adeguato ai rischi dell’area». Come può accadere che tutto crolli così facilmente? «Sono territori di grande povertà e Haiti è tra i posti più disgraziati. Eppure qualcosa si sarebbe potuto fare per evitare i disastri» In che modo? «Già qualche anno fa avevo fatto parte con il professor Ezio Faccioli del Politecnico di Milano di una commissione internazionale costituita dall’Associazione dei Paesi caraibici allo scopo di elaborare un codice a cui attenersi nelle fabbricazioni. Da tempo, quindi, esistono le conoscenze necessarie ma non mi risulta che siano mai state usate. Ciò che è accaduto è una drammatica conferma». Ma sono forse interventi complicati tecnologicamente e quindi molto costosi? «Niente affatto. Si tratta solo di rafforzare i criteri già adottati che fanno ricorso a materiali locali, legno compreso». E il suo lavoro di allora non ha più avuto seguito? Altri contatti non ci sono stati? «Il nostro documento si può ancora leggere sul sito Internet dell’Associazione dei Paesi caraibici e noi abbiamo continuato a collaborare. Nei rapporti nati per l’Expo il Comune di Milano finanzia degli studi legati a questi aspetti nell’area. Altrettanto dovrebbero fare altre nazioni invece di investire soltanto in aiuti e soccorsi per tamponare la tragica emergenza di oggi. Con l’obiettivo di aiutare soprattutto l’edilizia povera e non certo la nascita di edifici internazionali». Giovanni Caprara, Corriere della Sera 15/1/2010