Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 15/1/2010; Cristina Battocletti Carlo Marroni, Il Sole-24 Ore 15/1/2010;, 15 gennaio 2010
Il fango della Banca Romana che ricorda l’Italia di oggi. «Giù per i viali principeschi della Villa Borghese», scrisse Gabriele D’Annunzio, «si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui né il parrucchiere, né il sarto, né il calzolaio avevano potuto togliere l’impronta ignobile»
Il fango della Banca Romana che ricorda l’Italia di oggi. «Giù per i viali principeschi della Villa Borghese», scrisse Gabriele D’Annunzio, «si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui né il parrucchiere, né il sarto, né il calzolaio avevano potuto togliere l’impronta ignobile». Erano gli arricchiti della cosiddetta Terza Roma. Quelli che dopo Porta Pia, nella capitale occupata e piena di cantieri di palazzi in costruzione, si erano precipitati da ogni dove, attratti come mosche sul miele dalla prospettiva di fare soldi, soldi, soldi. Ed è quella la Roma che viene fuori dal film per la tivù Lo scandalo della Banca Romana, diretto da Stefano Reali, che andrà in onda domenica e lunedì sera su Raiuno. Una Roma di bellissime carrozze, bellissime case, bellissimi vestiti, bellissime donne ma marcia. Profondamente marcia. Certo, la storia dell’irresistibile ascesa, della perdizione e del riscatto del giovane giornalista protagonista, interpretato da Giuseppe Fiorello, così com’è stata sceneggiata dallo stesso regista, da Laura Ippoliti e Andrea Purgatori, è tutta inventata. Ovvio: le regole della fiction televisiva di oggi (con tanto di amore tormentato per la stupenda Andrea Osvart, lei pure corrotta, perduta, affranta e redenta) sono quelle. Di più: il vero protagonista del più clamoroso caso di criminalità finanziaria dei decenni seguiti all’Unità d’Italia, cioè il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo, un sanguigno romano de Roma che aveva modi assai spicci, era attaccato ai soldi fino all’avarizia («Quando mi farò il vestito nuovo io, allora ripareremo i salotti»), parlava con uno spiccato accento trasteverino ed era entrato nell’istituto di credito come garzone per salire su su fino ai vertici grazie ai rapporti che riusciva ad avere insieme sia coi cardinali della curia sia con la massoneria, ha la faccia e l’accento siciliano di Lando Buzzanca. E in qualche modo passa in secondo piano rispetto al vero «cattivone» del film, il direttore del giornale Il Popolo italiano, che ha il sorrisetto perfido e i baffetti affilati di Vincent Perez. Lo sfondo, però, compresi i profili dell’incorruttibile ispettore bancario Gustavo Biagini o dell’indignato Pietro Sbarbaro, direttore del giornale Le Forche Caudine (nato con l’obiettivo di essere «la gogna, il patibolo, il supplizio estremo di tutte le menzogne politiche, di tutte le ipocrisie, di tutte le porcaggini, che ingombrano a noi italiani») è proprio quello dello scandalo che scosse l’Italia nel 1893. Quando, esplosa la bolla immobiliare seguita all’Unità (c’è spesso una bolla immobiliare che esplode, all’origine di certi crac) er sor Tanlongo non vide altra soluzione che approfittare della facoltà di battere moneta che aveva ancora il suo istituto e stampare per proprio conto una somma enorme: 68 milioni dell’epoca. Un’operazione spregiudicatissima. Coperta grazie agli intrallazzi con un’infinità di faccendieri, politici corrotti, governanti inetti, giornalisti ambiziosi, arrampicatrici sociali, funzionari disonesti. E portata avanti con un corollario di misteri e di delitti, come l’uccisione (evocata anche nel film di Reali) di Emanuele Notarbartolo, titolare del Banco di Sicilia e vittima di uno dei primi delitti eccellenti della mafia. Certo, lo sceneggiato trabocca di bombette, tabarri, baffoni, basette, panciotti e orologi a cipolla. Eppure... Chiudete gli occhi, sostituite le carrozze con le Mercedes blindate, i cocchieri coi body-gard dall’auricolare nell’orecchio, le marsine con le giacche di flanella, le larghe gonne ottocentesche delle madamine coi tubini neri attillati e sembra proprio l’Italia di anni assai più recenti. Basti rileggere quanto scrive Luigi Pirandello, nel libro I vecchi e i giovani, a proposito dell’aria che tirava: «Dai cieli d’Italia in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia». Capisci l’Italia di oggi, a rileggere quella storia di ieri raccontata ad esempio ne I ladri di Roma da Enzo Magrì. L’intervista che il banchiere dà a Gallieno Sinimberghi, un cronista amico suo del giornale Parlamento, quando già è agli arresti, dice più di mille saggi sulla corruzione politica: «Vi si accusa di avere stampato troppo denaro». «Sissignore...». «Di sperperi...». «Questa è una calunnia». «Vi si vuole carcerare e se n’è domandato il parere al senatore Farini». «Lo so, lo so. Mi carcerino pure, ma stiano attenti ché giocano una brutta carta». «Come sarebbe a dire?». «Sarebbe a dire che se mi si accusa io ho il diritto di difendermi; se mi si vuole chiamare responsabile delle mie colpe sarò costretto a fare uno scandalo». Era furente, il potentissimo sor Bernardo: «Ah, mi si vuole rovinare? Trascinerò io in pubblico i nomi di coloro che mi hanno chiesto milioni su milioni. Quante volte io dicevo: "Non posso darne". "Occorrono" era l’unica risposta. E di ciò ho le prove, non le chiacchiere». «Come mai non ve ne servite?», gli chiese il giornalista. E lui: «Perché questa esibizione avrebbe ora l’aria di una delazione troppo ingrata per me. Voglio subire fino all’ultimo limite possibile le angherie che mi usano, ma, certo, il giorno della mia difesa verrà e allora sarà luminosamente dimostrato che io sono un galantuomo e gli altri, i quali stanno nell’ombra...». E chiuse: «Io non ho paura; se precipito giù casco in buona compagnia». E che compagnia! La sola istruttoria, ha scritto Siegmund Ginzberg, «vide sfilare davanti al giudice Capriolo 3 presidenti del Consiglio (che a loro volta ne evocarono altri 2), 6 ministri, 53 deputati (di tutti gli schieramenti), 35 alti funzionari, 42 giornalisti, 71 dirigenti e impiegati di banche». Costretto a dimettersi e a riparare prudentemente all’estero, Giovanni Giolitti (pensate un po’ cosa succedeva una volta...) mandò a dire che era un’inchiesta forzata, che i magistrati non erano imparziali e che lui aveva diritto a essere giudicato dal Parlamento. Finì in un’assoluzione generale. Dopo un processo svuotato dalla «evaporazione» di una serie di documenti fatti sparire da qualche misteriosa manina. Due anni dopo il giornale satirico L’Asino pubblicava un’allegra canzoncina dal titolo «Il crac delle banche»: «S’affondano le mani nelle casse - crac! / si trovano sacchetti pieni d’oro - crac! / E per governare, come fare? / Rubar, rubar, rubar, sempre rubare!». La strofa più divertente faceva così: «Se rubi una pagnotta a un cascherino - crac! / te ne vai dritto in cella senza onore; - crac! / se rubi invece qualche milioncino / ti senti nominar commendatore». Eh, l’Italia di una volta... Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 15/1/2010 • FICTION RAI SULLA BANCA ROMANA - D i scandali l’Italia unitaria, prima monarchica poi repubblicana, ne ha visti davvero molti. Con conseguenze più o meno evidenti. Ma quello della Banca Romana resta forse il più noto (e forse più grave, riferito ad una circostanza precisa) per le modalità e per la traccia che ha lasciato nella memoria del paese. Tanto che siamo già alla seconda fiction Rai (quella del ’77 era chiamata ancora sceneggiato), molto attesa, che andrà in onda in due puntate domenica e lunedì in prima serata su Rai 1 e che Il Sole 24 Ore ha visto in antempirma. Uno scandalo che scosse il paese dalle fondamenta, che portò alle dimissioni del primo ministro Giolitti, ma che alla fine - e questo non è fiction, neanche ai tempi di oggi - vide assolti tutti gli imputati. Uno scandalo di sistema, che richiama subito Tangentopoli: «Ma in quel caso- dice il regista Stefano Reali- era un mondo legato all’imprenditoria, che aveva bisogno di essere coperto dalla politica e quest’ultima voleva in cambio soldi. Qui i politici prendevano direttamente i soldi dalla banca». Insomma, ogni epoca ha le sue procedure, e in quel caso furono davvero disinvolte. Lo scandalo della Banca Romana, ed in generale la crisi del sistema bancario, fu causato dalla grave depressione iniziata nel 1887- 88 e per gli eccessivi investimenti nel settore edilizio, specialmente a Roma e dopo il trasferimento della capitale, a Napoli, per le operazioni di risanamento seguite al colera del 1884, che si rivelarono fallimentari per la stessa Banca Romana. Questa - guidata dallo spregiudicato governatore Tanlongo, per molti "il sor Bernardo", archetipo dell’elemosiniere tessitore di ragnatele proficue nel sottobosco politico - per coprire le perdite, non solo iniziò ad emettere nuova moneta senza autorizzazione, ma aveva addirittura proceduto alla stampa di due blocchi di biglietti aventi lo stesso numero di serie, in modo da raddoppiare, senza darlo a vedere, l’emissione. In tutto una truffa da un centinaio di milioni di lire ottocentesche, a cui buona parte del sistema politico aveva attinto. « la madre di tutti gli scandali finanziari del secolo scorso e del nuovo millennio - dice ancora Reali - allora Tanlongo emetteva pezzi di carta che venivano chiamati banconote, stampando anche il doppio della valuta a disposizione senza essere controllato da nessuno. Oggi i titoli tossici sono pezzi di carta che dovrebbero avere un valore, ma chi lo garantisce? Ai risparmiatori truffati da Lehman Brothers o da Parmalat successe esattamente la stessa cosa di coloro che alimentavano il proprio conto corrente alla fine dell’Ottocento». La fiction - protagonisti Giuseppe Fiorello nei panni romanzati di un giornalista senza macchia, Vincent Perez, direttore di giornale assai colluso e la bellissima donna di potere Andrea Osvart, che in fondo in fondo crede nella verità - è un continuo gioco di specchi tra idealità e malaffare, ipocrisia e realismo («Più mi attaccano più la gente mi vuol bene » grida il "cattivo"), che fa leva su tutti gli ingredienti ghiotti dell’immaginario. Una vicenda che, alla fine, ha lasciato tutto com’era, anche nei libri di storia: «Abbiamo raccontato la verità su personaggi come Crispi e Giolitti, a cui sono intitolate decine di piazze e vie in Italia, che sono usciti illibati da un processo in cui erano pesantemente coinvolti» ribatte Reali, che commenta amaro: «I truffati di allora e di oggi hanno le stesse certezze: sanno che chi ruba pagherà con una breve pena non commisurata al suo reato, che godrà del gruzzolo che si sarà messo via illegalmente e che il maltolto non verrà mai restituito. Questo è accaduto allora come accadde oggi nello sciocco mercato del titolo facile, del bond, della finanza pirata». Forse è una piccola consolazione il ricordo che uno dei più alti discorsi mai pronunciati a Montecitorio nella sua storia di parlamento dell’Italia unitaria fu dedicato proprio alla scandalo della banca romana, dal deputato repubblicano Napoleone Colajanni, il 20 dicembre 1893, discorso che, pare, fu determinante nella future scelte di un altro grande siciliano, Luigi Sturzo.