Miriam Maffai La Repubblica 14/1/2010 Filippo Ceccarelli, La Repubblica 14/1/2010 Giorgio Ruffolo, La Repubblica 14/1/2010, 14 gennaio 2010
3 articoli. LE DUE ANIME DEL LEADER CHE VOLLE CONQUISTARE L’ITALIA. Bettino Craxi è morto dieci anni fa ad Hammamet, in Tunisia dove era fuggito nel maggio del 1994, alla vigilia di un processo che lo avrebbe condannato in contumacia per corruzione
3 articoli. LE DUE ANIME DEL LEADER CHE VOLLE CONQUISTARE L’ITALIA. Bettino Craxi è morto dieci anni fa ad Hammamet, in Tunisia dove era fuggito nel maggio del 1994, alla vigilia di un processo che lo avrebbe condannato in contumacia per corruzione. Era dunque un latitante e se, da vivo, fosse tornato in Italia, avrebbe trovato ad accoglierlo, a Fiumicino, i carabinieri che lo avrebbero accompagnato a Regina Coeli. Se invece fosse tornato in Italia da morto, avrebbe trovato a Fiumicino le più alte autorità dello Stato e ricevuto solenni funerali. Le due figure, le due immagini di Craxi, quella del latitante degno della galera e quella dell´uomo politico degno dei funerali di Stato si confondono e si sovrappongono, nella nostra memoria come nella storia del nostro paese. In questa contraddizione solo apparentemente paradossale è possibile leggere il più sintetico giudizio sull´operato e la figura di Craxi, il quarantenne semisconosciuto che, chiamato nel 1976 ad assumere la segreteria di un Psi ormai ridotto a un miserabile 9,6 per cento dei voti, riuscirà in pochi anni ad affermarsi su una scena politica saldamente occupata da due grandi partiti, la Dc e il Pci, che insieme avevano raccolto oltre il 70 per cento dei voti. Lo spazio di manovra dunque era quanto mai ridotto, ma Craxi, buon giocatore di poker e privo di ogni complesso di inferiorità saprà usarlo con spregiudicatezza, fino ad arrivare a Palazzo Chigi, nel 1983, da presidente del Consiglio. La spregiudicatezza d´altronde è stata una delle caratteristiche del craxismo, quel vestito ideologico che una parte d´Italia indossò improvvisamente negli anni Ottanta: una miscela di rampantismo e di idealismo libertario, di edonismo e laicità, di voglia di successo e spirito d´autonomia riassunto nella parola "modernità". Cresciuto in una famiglia in cui la politica è di casa, Bettino ha modo di visitare presto, come esponente della gioventù socialista, alcuni paesi dell´Est europeo, detti allora a "democrazia progressiva". E non gli piacciono. Ha vent´anni quando i carri armati sovietici entrano a Budapest, dieci di più quando viene stroncata la primavera di Praga. Nasce anche da lì il suo rifiuto del cosiddetto "socialismo realizzato", la sua generosità nei confronti dei profughi di quelle "primavere" che, come Jiri Pelikan, saranno costretti a rifugiarsi in Occidente, e soprattutto la sua diffidenza nei confronti del Pci troppo timido e lento nel prendere le distanze dall´Urss. Non a caso una delle sue prime decisioni è quella di sostituire la falce e martello con il garofano, simbolo del Primo Maggio e emblema adottato da Mitterrand. un fiore rosso, decisamente rosso. Ma quando a Torino un socialista troppo zelante gli chiede di cancellare anche quel colore, Bettino reagisce con furia e fastidio. La falce e martello è un residuo leninista e può essere abolita, ma il rosso - risponde - non si cancella, fa parte della storia dei lavoratori e del partito. E non a caso, forse, lui stesso esibirà quasi sempre una cravatta rossa. Amava la buona tavola, le belle donne, la musica popolare e fumava delle insopportabili sigarette alla menta. Era sospettoso, aggressivo, impaziente, quasi sapesse di non avere molto tempo a disposizione. Come alleato era scomodo, come avversario poteva essere pericoloso. E si capisce la diffidenza e il sospetto che nei suoi confronti provò sempre Enrico Berlinguer, uomo di tutt´altra pasta e cultura. Craxi capì, prima di altri, che con gli anni Ottanta entravamo nell´epoca del consumo opulento, e che una televisione commerciale poteva esserne il traino e insieme incidere sugli orientamenti politici e culturali degli italiani. Per questo, contro il parere dei giudici, ristabilì un preteso diritto all´etere delle tv di Berlusconi. E questa è certamente l´eredità più pesante di cui soffriamo. Ma da Bettino Craxi abbiamo ereditato anche l´idea della necessità di una Grande Riforma, della quale tuttavia non furono mai precisati allora i contorni, ma di cui faceva senza dubbio parte una qualche forma di presidenzialismo, una riduzione dei poteri del Parlamento, e, dunque, una inevitabile riforma della Costituzione. Leader di un partito irrimediabilmente minoritario Craxi capì prima di altri l´importanza del controllo dell´informazione e del danaro per la costruzione del consenso. Se il vecchio Pietro Nenni, suo maestro, arrivato nel 1964 alla vicepresidenza del Consiglio aveva cercato, a Palazzo Chigi la "stanza dei bottoni", Bettino Craxi puntò subito, invece, alla cassaforte. Ma la cassaforte non si trovava solo a Palazzo Chigi. Già De Mita, segretario della Dc, aveva dichiarato di ritenere che il finanziamento dei partiti di governo fosse «un compito istituzionale» delle aziende di Stato, dell´Eni, dell´Iri, delle grandi banche. Bettino Craxi allargò a tutte le aziende interessate ai lavori pubblici la platea di coloro che avrebbero dovuto contribuire al finanziamento. L´operazione riuscì. I soldi affluivano regolarmente, a Milano, direttamente nell´ufficio di Craxi, nelle mani della sua fedele segretaria, e, in periferia, ai vari ras o feudatari che gestivano la vita pubblica. Un finissimo storico socialista, Luciano Cafagna, ha scritto che quello che il nostro Eugenio Scalfari aveva definito, giustamente, Ghino di Tacco, per poter condizionare e taglieggiare gli alleati aveva bisogno di assoluta autonomia sul piano finanziario. E dunque, «attraverso un disegno diabolico tendeva a collocarsi come un ragno al centro della tela del finanziamento politico, ampliandola al proprio favore più rapidamente degli altri, in modo da farsene addirittura regista e distributore. E diventare così definitivamente centrale, indispensabile, arbitro». Per una drammatica ironia della sorte, questo sembra l´unico disegno che, portato a compimento dal leader, ne comporterà anche la rovina. Il ragno, per usare l´immagine di Cafagna, verrà soffocato dalla stessa ragnatela da lui costruita. Nel febbraio del 1992 il socialista Mario Chiesa, venne arrestato con le tangenti ancora in tasca. Craxi lo definì un "mariuolo". Ma era il prologo della valanga che travolse il Psi: le incriminazioni, le monetine davanti al Raphael, la condanna e la fuga del leader in Tunisia. Miriam Maffai La Repubblica 14/1/2010 QUEI RAMPANTI AL POTERE. Per farsi un´idea del craxismo cogliendolo ai suoi albori, primavera 1981, congresso di Palermo, gigantesco garofano collocato da Panseca in cima al monte Pellegrino, primitivi giubbotti, embrioni di belle donne e di piduisti in platea, proto religione garibaldina e anticipo di culto della personalità del leader, semi-plebiscitato con opportune forzature carismatiche... Insomma: per capire quello che a quei tempi ancora non si chiamava craxismo occorre forse ricordare il pallore e la misoginia dei dorotei; così come si deve ripescare, sempre dai cassetti della memoria, l´espressione arcigna con cui nella nomenklatura comunista era accolto qualsiasi accenno al nuovo segretario socialista e ai suoi "rampanti" seguaci. Ecco. Senza le curiali mollezze democristiane e la grigia severità in vigore a Botteghe Oscure l´avventura dei craxiani sarebbe stata certamente più noiosa. Mentre invece - sia detto qui senza alcuna malignità - se la spassarono così alla grande che nessuno di loro oggi ammetterà mai di aver sbagliato. Quattrini, certo, ché in politica sono indispensabili. Ma anche balli, canti, letti, avventurieri, nobildonne, ambasciatori, zoccole, viaggi esotici, pranzi con l´Avvocato, vita d´albergo, gli asciugamani per terra, le briciole sul divano. E poi le terrazze, le griffe, il salotto di Adelina Tattilo, la Gbr di Ania Pieroni, il libro sulle discoteche del ministro De Michelis, la villa sull´Appia antica ribattezzato da Martelli "I giardini di Politeia", i casali nelle terre di Ghino di Tacco. A un certo punto si comprarono pure un cinema, il Belsito, per farne il loro tempio: è ancora lì, abbandonato. Fu una scommessa durata appena dieci anni e solo ora si comincia a intravedere come i vizi del craxismo fossero l´altra faccia delle sue virtù. Non c´entrano né il whisky, né il poker, né i primissimi lifting. che questi irriconoscibili socialisti fecero scandalo, ruppero piatti, seppellirono la falce e martello e tagliarono la barba al profeta, cioè a Marx, per qualche mese intestandosi un Proudhon che quasi nessuno di loro aveva letto. E nel frattempo tolsero un certo numero di Casse di Risparmio alla Dc. Nel 1977 alcuni di loro continuarono a civettare con l´estremismo e anche con l´autonomia; però l´anno seguente, di punto in bianco, si misero in testa di salvare Moro; quindi fecero di tutto per segnalarsi al di là dell´oceano, erano gli anni di Reagan, offrendosi come alternativa possibile a quei conigli dei loro alleati e concorrenti democristiani. A quel punto il craxismo, misurato secondo i parametri delle già declinanti culture politiche, fece l´effetto della televisione a colori rispetto al vecchio bianco e nero. Come sia andata a finire dopo l´epopea di Palazzo Chigi lo sanno tutti: malissimo, con il vecchio e glorioso Psi cancellato dal paesaggio. Forse non fu solo Mani Pulite. Sta di fatto che il centenario venne drammaticamente ricordato fra prestanomi, fughe, voltafaccia, monetine, fratricidi, carcere, esilio - o latitanza che sia. E però. Alla sconfitta politica, che ai vecchi padri sarebbe sembrata rovinosa ed esemplare, corrisponde una vittoria che con le dovute cautele e senza nemmeno troppa ironia si potrebbe designare come "morale". E che magari se ne sta nascosta dietro l´ambigua retorica della "modernizzazione": nel senso che il craxismo, la sua gloria lampo e ritardata, hanno anticipato il presente. Concezione del comando e della politica, fiducia cieca nella comunicazione, ansia di vitalismo e conseguente stile di vita. Incertezza, infine, del futuro. Primum vivere, diceva del resto Craxi, ed era implicito che si viveva una volta sola. (Anche per questo è vano rimpiangere sia il latte bevuto che quello versato). Filippo Ceccarelli, La Repubblica 14/1/2010 IL BREVE REGNO DI RE BETTINO. La prima volta che vidi Craxi mi sembrò un omone un po´ impacciato: come chi tema, muovendosi, di sfasciare qualche cosa. Timore, se c´era, non del tutto infondato. Personaggio singolare, anzi plurale perché non facile a essere ridotto a una dimensione, come fanno quelli, numerosi, che lo detestano e quelli, altrettanto numerosi, che lo idolatrano. Personalmente, sono stato un critico di Craxi, ma non un oppositore. Ne ho apprezzato molti lati e ne ho disapprovato altri, sempre apertamente. Credo di poterne parlare sine ira et studio. Senza la pretesa di giudicare. Ma di dire semplicemente ciò che penso. Penso che fosse un leader politico di alto livello, di gran lunga superiore alla media dei suoi rivali, ma non un genio politico. Che sia stato capace di concepire un´impresa grande, ma incapace di restarne all´altezza. Che la sua fine sia degna di grande rispetto e di umana solidarietà. Non di ammirazione. Mi limito ad esprimermi succintamente su tre questioni vessatissime: la corruzione, il disegno politico, il duello a sinistra. La corruzione. Craxi denunciò in un discorso al Parlamento rimasto giustamente famoso l´universalità del finanziamento illecito dei partiti. Aveva indubbiamente ragione. Ma, a parte l´improponibilità giuridica dell´argomento (un reato non è estinto dalla sua condivisione) è un fatto che Craxi abbia assunto in quel sistema un ruolo di primo piano. Non ne era certo un passivo fruitore, ne diventò un attivo organizzatore. Peggio. Giunto al potere nel partito, permise che vi dilagasse uno spudorato termidoro, una corte di adulatori arroganti, scarsi di meriti e ricchi di bisogni. C´è poi da dire che la politica ha un alto grado di tolleranza per il malcostume quando esso è sovrastato da un grande disegno politico. E vengo al secondo punto. Quel disegno politico, mancato clamorosamente, e vergognosamente, da Nenni alla fine della guerra, Craxi l´aveva: l´autonomia socialista. Alcuni di noi, io tra quelli, pensavano che quell´autonomia, conquistata sganciandosi dalla subordinazione comunista, lui l´avrebbe giocata nella creazione di una alternativa di sinistra, come Mitterrand. Probabilmente Craxi stesso questa prospettiva in un certo momento la coltivò. Ma in lui il rischio del futuro fu vinto dalle rendite del presente. E quando il crollo dell´Urss gli presentò un´occasione suprema, non seppe sganciarsi da quella che era diventata un´alleanza opportunistica e priva di avvenire, il cosiddetto Caf, per correre l´alea che ogni politico, se è grande veramente, deve accettare: di perdere o di guadagnare tutto in un colpo solo. Il suo invito di andare al mare, agli italiani che chiedevano un segno decisivo di cambiamento, è la tragica prova del suo declino. Resta il terzo punto. Il duello a sinistra. Su questo, le responsabilità comuniste sono superiori a quelle craxiane, perché più antiche. Come Mario Pirani ha spiegato in modo impeccabile, la prospettiva strategica dei comunisti non era l´alternativa, tanto meno quella socialista. Era il compromesso con i cattolici. I socialisti, pobre semilla, dovevano seguire o scomparire. I comunisti, che pure avevano partecipato sia pure marginalmente alle spoglie di tangentopoli, ebbero un´inopinata fortuna: di vedere travolti i socialisti proprio nel momento in cui, a cent´anni dalla nascita del loro partito e dopo il disastro storico del comunismo, avrebbero potuto celebrare il loro trionfo. Ma gli ormai post-comunisti confermarono il loro tenacissimo antisocialismo: preferendo, all´assunzione della eredità storica socialista, una identità artefatta che ancora oggi dimostra il suo pallore; e consegnando alla destra estrema un cospicuo regalo elettorale. Giorgio Ruffolo, La Repubblica 14/1/2010