Domenico Quirico, La Stampa 14/1/2010 Luca Fornovo, La Stampa 14/1/2010, 14 gennaio 2010
Lavoro, Madrid batte Berlino. CORRISPONDENTE DA PARIGI. Quando i miti si raggrinzano... I tedeschi ad esempio: laboriosi come formiche, pavimentati di perfezioni, si dice
Lavoro, Madrid batte Berlino. CORRISPONDENTE DA PARIGI. Quando i miti si raggrinzano... I tedeschi ad esempio: laboriosi come formiche, pavimentati di perfezioni, si dice. Fine della fiaba. Campano di una teutonica bugia: lavorano infatti ogni anno la miseria di 1.432 ore. E sono al penultimo posto, in una gerarchia di dieci paesi che hanno un Pil per abitante tra i più elevati del mondo. Passiamo agli impettiti francesi. Ha ragione Sarkozy, il loro presidente quando li invitava a rimboccarsi le maniche: 1559 ore, ottavo mortificante posto. Il presidente ha ancora molto da inveire e inventare con i suoi enciclopedici programmi di rinnovamento nazionale. Le 35 ore istituite nel 2000 dell’ultimo governo socialista hanno inferto un colpo micidiale lasciandogli in eredità un presente procelloso: tanto che le recriminazioni, peraltro quasi universali, ancora continuano. L’Italia è davanti alle due locomotive dell’Europa, seppure di pochissimo: 1.566 ore, in pratica a metà classifica. E nella parte alta chi si è infelpato con la medaglia del lavoro? I coreani, quelli del sud, non gli schiavi di Kim, scalcagnato comunista residuale. I sudisti sono primi, irraggiungibili, affondati o benedetti in uno scenario stakanovistico gonfio di sudori: 2.165 ore. Lavorano cinquecento ore più di noi, una enormità. Siamo per intenderci oltre i livelli occidentali degli anni cinquanta quando il tempo universale medio di lavoro era di 2.000 ore; a ragione, perché si dovevano riappiccicare le macerie della guerra. La sorpresa sono gli americani, che una tipologia corrente descrive come ormai proiettati oltre la maledizione dello sgobbo quotidiano: ebbene sono a 1.785 ore, davanti agli alacri per definizione giapponesi, 1784. Il recente boom della Spagna ora in po’ in panne si specchia e si alimenta anche sulle loro rimarchevoli 1.775 ore. A mezza strada il Regno unito (1.607) e la Svezia (1.601). E’ il francese Insee, l’istituto nazionale di statistica attraverso una ricerca curata da Gérard Bouvier e Fatoumata Diallo a mettere in fila queste classifiche collocandole in una decennale tendenza universale alla riduzione del tempo di lavoro. In tempi di crisi e di polemica contro l’assalto delle economie emergenti e laboriose alla cittadella della produttività occidentale queste cifre sono ordigni incendiari. Negli ultimi sessanta anni il lavoro quotidiano è diminuito del venticinque per cento. Molte le cause a cui dobbiamo dire grazie: hanno operato in senso sedativo la contrattualizzazione innescata dalla riduzione del peso dell’agricoltura, la riduzione della settimana lavorativa, l’aumento delle ferie pagate, lo sviluppo del tempo parziale. Il merito storico i ricercatori lo attribuiscono agli anni sessanta: insieme alla minigonna a al rock ci hanno cambiato la vita la riduzione degli straordinari e le giornate di congedo pagate. Ma anche i tempi successivi, di disoccupazione crescente e di economie in crisi non hanno segnato ritorni al passato : le strategie di rilancio infatti vezzeggiavano la riduzione del tempo collettivo. Questo fenomeno che è comune a tutti i paesi industrializzati, non si è però sviluppato nello stesso modo e con le stesse cadenze. In sessanta anni i lavoratori olandesi e tedeschi sono passati da 2.300 ore annuali a 1.400 di media. Negli Stati Uniti la riduzione è stata invece di 200 ore e da 30 anni il tempo di lavoro è praticamente stabile. L’Italia ha seguito un ritmo intermedio. I dati di operosità della Spagna, ma anche del Giappone dipendono dal fatto che queste economie hanno imboccato la via del lavorare meno più tardi, alla fine degli anni Settanta la Spagna, negli anni Ottanta i giapponesi. Quanto ai coreani in quel paese il lavoro non contrattualizzato è ancora frequente e il tempo parziale un concetto quasi sconosciuto. Le cifre dell’Insee non offrono però risposte ad altri interrogativi. Ad esempio sugli effetti che il lavorare meno ha determinato nella società. Il caso francese è emblematico. Il paese ha perso a causa delle 35 ore in competitività. diventato almeno più felice? Non si direbbe. I lavoratori, infatti, confessano che è cresciuta la tensione. Quanto alle ore libere per migliorare la loro vita, beh, sono pronti a barattarle volentieri con fruttiferi e ghiotti straordinari. Domenico Quirico, La Stampa 14/1/2010 ’Sgobbiamo tanto ma alla fine produciamo poco”. Gli italiani? Sgobbano tanto ma male, con risultati modesti se si pensa alla crescita economica del nostro Paese. La ricerca dell’Istituto francese di statistica parla chiaro: la Germania è la locomotiva d’Europa, eppure i tedeschi lavorano 130 ore all’anno in meno di noi». La battagliera sindacalista Susanna Camusso, segretaria confederale della Cgil, ci tiene a sfatare una volta per tutte il falso mito che più ore si lavorano e più un Paese è produttivo. Ma allora di che cosa ha bisogno l’Italia per aumentare la produttività? «Lavorare otto oppure dieci ore non fa differenza, se le infrastrutture sono carenti o non si fa nulla per rendere più professionali e specializzati i lavoratori. Quindi occorre, per esempio, che le aziende facciano più formazione per i loro dipendenti, come avviene in Germania». Lei ha parlato anche di infrastrutture. «Certo, ma non alludo solo all’alta velocità ferroviaria o al Ponte sullo Stretto di Messina, ma alle ”autostrade online”. Dobbiamo sviluppare le reti di banda larga e le altre innovazioni tecnologiche perché siamo indietro rispetto agli altri Paesi europei. Ma soprattutto occorrono più investimenti nei prodotti di qualità, come per esempio le macchine utensili. Insomma ci vuole un salto strategico». L’Istat ha appena diffuso il dato sulla produzione industriale: su base annua è calata del 5,2%. Che ne pensa? «Insieme alla caduta della produzione, persiste un forte calo degli investimenti, che va avanti da più di un anno. Queste scelte confermano l’assenza di scelte politiche industriali, tali da indirizzare e sostenere il futuro del nostro Paese». Aprirete un tavolo col Governo su questi temi? «Speriamo al più presto. Ci abbiamo provato e continueremo a farlo, anche se finora il tempo è passato e l’agenda del Governo continua a non affrontare questi temi. Il tempo perso determina solo aggravamenti della situazione, allarga il divario tra le aree del Paese con preoccupanti processi di de-industrializzazione e declino». La crisi economica e finanziaria ha cambiato il modo di lavorare? «Sì e in modo radicale. Con l’aumento della cassa integrazione ordinaria e straordinaria e il continuo proliferare dei contratti di solidarietà, lavorano di meno soprattutto gli italiani impiegati nell’industria, uno dei settori più colpiti dalla recessione e che ha visto un forte calo degli ordini». E nei servizi? «La crisi e soprattutto le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il modo di lavorare. Tutti quelli che lavorano in banca, nell’informatica, nella grande distribuzione e nel commercio lavorano di più delle canoniche 7-8 ore». E perché? «Spesso lavorano fuori ufficio, telefonando, usando il pc portatile o il blackberry per scrivere e-mail in modo da risolvere problemi tecnici, rispondere ai fornitori, organizzare incontri e quant’altro. Con l’avvento di Internet, non ha più senso parlare di orari tradizionali. E spesso i contratti non tengono in conto di tutto questo lavoro in più». Tornando al passato quali sono state in Italia le svolte decisive per la riduzione dell’orario di lavoro? «Gli anni Sessanta sono stati decisivi per il passaggio alle 8 ore di lavoro al giorno. Poi negli anni Settanta c’è stata la svolta importante dei turnisti con le 7 ore e mezza al giorno, giustificate da un lavoro più faticoso e usurante di quelli tradizionali». Quale sarà la prossima sfida dei sindacati? «Come dicevo, produttività e poi una più equa distribuzione del lavoro». Luca Fornovo, La Stampa 14/1/2010