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 2010  gennaio 14 Giovedì calendario

L’ISOLA DEGLI ULTIMI

Vi sono sventurati Paesi che soffrono di una pericolosa contraddizione. Per la loro posizione geografica suscitano l’interesse delle grandi potenze e diventano rapidamente una posta nel gioco delle loro rivalità e delle loro ambizioni. Ma sono troppo piccoli e fragili per valorizzare questo patrimonio naturale a proprio vantaggio. Haiti, colpita ieri da un terremoto disastroso con migliaia di vittime (la foto che pubblichiamo è l’emblema di un dolore che ci commuove), appartiene a questa infelice categoria. Collocata a metà strada fra Cuba a Puerto Rico, l’isola divenne sin dal Seicento un crocevia di pirati e un buon approdo per le flotte delle due potenze, la Spagna e la Francia, che si disputavano in quel momento il controllo dei Caraibi. Qualche avventuroso colono europeo creò le prime fattorie agricole e importò schiavi per la lavorazione del tabacco, del caffè e dello zucchero. Amministrata per una parte dalla corona francese e per l’altra dalla corona spagnola, l’isola divenne molto ricca, ma presentò subito una caratteristica sociale e demografica che avrebbe pesato lungamente sul suo sviluppo: una piccola élite di proprietari bianchi, spesso spregiudicati e rapaci, una grande massa di schiavi neri importati dall’Africa e, con il passare del tempo, una fascia intermedia di mulatti che potevano essere in qualche caso peggiori dei padroni bianchi. Era troppo eterogenea e socialmente squilibrata per diventare uno Stato e troppo appetitosa per essere lasciata in pace.
Questo miscuglio ebbe tuttavia l’effetto di produrre una sorta di copia caraibica della rivoluzione francese. Vi fu una insurrezione degli schiavi nel 1791 e la Convenzione di Parigi rispose a quell’avvenimento con un gesto generoso e illuminato: la soppressione della schiavitù. Apparve sulla scena di lì a poco un «liberatore», François Dominique Toussaint Louverture, un Danton nero che cercò di sfruttare le rivalità franco-spagnola e anglo-francese per consolidare il proprio potere. Il suo nome divenne molto popolare in Europa e sembrò dimostrare che il messaggio rivoluzionario di Parigi aveva una risonanza universale. Le stampe che lo ritraggono in atteggiamenti rivoluzionari e vestito degli stessi abiti indossati allora dai giacobini di Parigi, ebbero una grande diffusione in tutta l’Europa. Un suo discorso sull’esistenza di Dio veniva ancora letto e studiato, sino a qualche decennio fa, nelle scuole americane.
Ma negli anni seguenti l’isola, oltre a essere contesa dalle grandi potenze, ebbe la sventura di precipitare in una spirale di guerre civili. I proprietari bianchi furono espropriati e le terre furono distribuite agli schiavi liberati. Ma al conflitto tra i neri e i bianchi subentrò quello tra i neri e i mulatti.
La pace ritornò nel 1820 quando un nuovo capo, Jean-Pierre Boyer, riuscì a pacificare l’isola, a unificarla e a ottenere, con il pagamento di un indennizzo alla Francia, il riconoscimento internazionale. L’unità durò sino al 1843, quando gli abitanti della parte spagnola insorsero contro il governo e crearono la Repubblica Dominicana. Alla scissione seguì un tragico declino economico. Le grandi aziende agricole dell’epoca coloniale avevano arricchito soltanto i coloni bianchi. Lo spezzettamento delle proprietà e la distribuzione al popolo di piccolissimi lotti crearono una sorta di sotto-proletariato agricolo; e quel po’ di ricchezza che ancora restava nell’isola finì nelle mani di un ceto urbano composto prevalentemente da mulatti. Il risultato di questa continua lotta di classe fu una cronica instabilità. I presidenti arrivavano al potere grazie a un colpo di Stato e lo perdevano (quando non perdevano contemporaneamente la vita) grazie a un altro colpo di Stato.
Gli Stati Uniti, nel frattempo, prestavano all’isola un’attenzione saltuaria e dettata generalmente da occasionali interessi economici o strategici. Intervenivano per mettere ordine nel Paese quando era necessario, e se ne andavano quando la situazione si era più o meno normalizzata. I loro alleati nell’isola erano generalmente i mulatti che rappresentavano allora la classe dirigente di Haiti. La situazione cambiò nel 1957, un anno prima della rivoluzione castrista, quando un caudillo, François Duvalier, si servì delle masse nere per conquistare il potere e governò a vita con l’aiuto di una feroce milizia personale, i Tonton Macoutes.
Con la successione del figlio Jean Claude nel 1971 Haiti sembrò avere una monarchia di fatto. Ma anche Jean Claude, nel 1986, dovette fuggire all’estero e lasciare il posto ai militari. Per qualche anno, quando i militari furono costretti a farsi da parte, sembrò che anche Haiti si sarebbe avviata sulla strada della democrazia. Il personaggio più interessante, all’inizio degli anni Novanta, fu un sacerdote cattolico, noto per la sua «teologia della liberazione». Si chiamava Jean-Bertrand Aristide e aveva il triplice difetto di essere troppo debole per i seguaci di Duvalier ancora presenti nel Paese, troppo evangelico per la reale condizione di Haiti, e un po’ troppo a sinistra per una parte dell’establishment statunitense.
Bill Clinton, allora presidente, fu, come nelle sue abitudini, prudentemente ondivago e prestò ad Aristide un sostegno limitato. La presidenza del nuovo arrivato durò pochi mesi dal febbraio al settembre 1991, ma Clinton lo aiutò a riconquistare il potere nel 1994 e gli consentì di tenerlo fino al 1996. Il sacerdote ritornò alla presidenza nel 2001 ma la perdette per un colpo di Stato militare nel 2004. Era la solita storia haitiana, ma con un po’ di democrazia in più e, a giudicare dagli avvenimenti degli ultimi anni, qualche modesta prospettiva di maggiore stabilità politica.
Oggi, dopo il tragico terremoto delle ultime ore, resta una sola disperata speranza: che la tragedia abbia l’effetto di attirare su questo povero Paese una maggiore attenzione internazionale e possa creare in tal modo le condizioni per una ricostruzione non soltanto materiale, ma anche economica e civile.