Paolo Quarto, Novella 2000, n. 48, 26/11/2009, pp. 22-23, 26 novembre 2009
Se Meloni e Mussolini vanno a quel paese. In un film, la deputata del Pdl Alessandra Mussolini viene definita "troia e assassina"
Se Meloni e Mussolini vanno a quel paese. In un film, la deputata del Pdl Alessandra Mussolini viene definita "troia e assassina". In un libro di vignette, il ministro della Gioventù Giorgia Meloni viene tirata in ballo nel ruolo di protagonista rozza, volgare e anche un po’ depravata. Il dibattito politico si infiamma. E l’insulto, vecchio totem della risata grassa italiana, torna a galleggiare come un rifiuto tossico nel mare inquieto dell’arte. I fatti, quindi: il film è Francesca, del regista rumeno Bobby Paunescu, e racconta di una maestra d’asilo di Bucarest che sogna di aprire una scuola in Italia. La frase incriminata, pronunciata da uno dei protagonisti, è: «La Mussolini, una troia che vuole ammazzare tutti i romeni». A margine, ce n’è anche per il sindaco di Verona Flavio Tosi definito "di merda". La Mussolini ha cercato di bloccare l’uscita del film presentando un ricorso d’urgenza al Tribunale civile di Roma. Ma il giudice ha rigettato la richiesta: nelle sale italiane, la pellicola sarà proiettata nella versione integrale dal 27 novembre. «I1 provvedimento, oltre a essere lesivo dei miei diritti, è di una pericolosità sociale senza precedenti», ha ribattuto Alessandra Mussolini. «Ho sempre saputo che il diritto di critica, in questo Paese, può essere liberamente esercitato. Ma i limiti dovrebbero essere quelli della diffamazione. In questo modo, invece, chiunque sarà libero di insultare qualcun altro, purché lo faccia in versi o in una qualsiasi opera d’ingegno». Con lei si è schierata il ministro alle Pari opportunità Mara Carfagna: «Ormai quotidianamente ci troviamo davanti a nuovi attacchi personali gratuiti e ad affermazioni volgari e offensive. arrivato il momento di dire basta». Ma se il deputato del Pdl Aldo Di Biagio ha ritenuto la vicenda degna di un’interrogazione parlamentare, il regista del film Bobby Paunescu cade dalle nuvole: «Giuro che non mi aspettavo di scatenare un simile pandemonio. Allucinante. Ma siamo sicuri che questi signori facciano sul serio, quando si dichiarano così arrabbiatiù?». Anche Alessio Spataro, l’autore del libro di vignette eloquentemente intitolato La Ministronza, secondo elemento di scandalo per la classe politica, si stupisce della reazione indignata: «Si occupano di me?», domanda. «Come se li pagassimo per questo, come se il loro stipendio giustificasse queste perdite di tempo». Il contenuto, elaborato sulla scorta delle vignette disegnate sul suo blog, è per stomaci forti. Basti pensare che una delle definizioni più soft usate da Spataro per illustrare il suo personaggio è: «Nota depravata necrofila che si eccita davanti alla carogna di Mussolini a Predappio». Ovvio che il ministro Meloni riscuotesse unanime solidarietà. Da Livia Turco a Gianfranco Fini, da Paola Concia a Renato Schifani, da Angela Finocchiaro (catanese come il disegnatore Spataro) a Ignazio La Russa, da Maurizio Gasparri a Rosy Bindi. E proprio la Brodi è stata tirata in ballo dal Secolo d’Italia, il primo a sollevare il caso: «Se la protagonista di La Ministronza fosse stata Rosi Bindi, ha scritto il quotidiano, «Repubblica avrebbe già lanciato una raccolta di firme online...». Ma, anche davanti al fuoco incrociato di critiche. Spataro si dichiara per nulla pentito del fumetto: «Io rispondo solo ai miei lettori e alla casa editrice Grrrzetic, che l’ha pubblicato», ribatte. «Senza contare che c’è chi si deve pentire di cose peggiori». L’unico che, in qualche modo, difenda la provocazione di Angelo Spataro, è il giornalista Luca Sofri, che sul suo blog scrive: «La differenza tra un presidente del Consiglio che si rivolge volgarmente e offensivamente a una sua avversaria politica e un libretto di fumetti pubblicato da una sconosciuta casa editrice e firmato da un anonimo disegnatore dovrebbe essere palese. E sottolineo che "sconosciuta" e "anonimo’ sono semplici dati di fatto, non termini di spregio, anzi». Così come è un dato di fatto che il bon ton non sia mai stato un vanto del mondo politico italiano. Sull’uso disinvolto dell’insulto nelle aule del Parlamento, rimane una pietra miliare Nino Strano, all’epoca della sua finora ineguagliata performance senatore di An e oggi assessore al Turismo nella regione Sicilia. Era il 24 gennaio 2008, in coincidenza con la caduta del governo di Romano Prodi. In quell’occasione Strano prese di mira un collega dell’Udeur, Nuccio Cusumano, colpevole, a suo dire (o a suo strillare), di aver votato a favore della maggioranza di cui peraltro faceva parte. In soli 70 secondi, l’olimpionico dell’insulto pronunciò la parola "cesso" sei volte. "checca squallida" altre sei, "merda" quattro più altre parolacce che non è il caso di rivangare. Alla fine, chiuse la bocca per trangugiarsi, sui banchi di Palazzo Madama, a favore di telecamera, due etti di mortadella. E che anche la legge sia più "comprensiva" nei confronti delle aggressioni verbali è già realtà, anzi, reality, visto che a queste trasmissioni si riferisce la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto la domanda di risarcimento avanzata da Franco Mancini, partecipante di Survivor (un flop di Italia 1 del 2001) per essersi beccato l’epiteto "pedofilo". L’insulto, in questo caso, è diventato legittimo. Una tesi di cui le Iene hanno approfittato.