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 2010  gennaio 13 Mercoledì calendario

UBBIDIENZA VERSUS COSCIENZA


Distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo. (Seconda lettera ai Corinzi 10, 5)

Dentro di me non c’è niente di mio. L’uomo è una canna, diceva Pascal, e una canna mi risulta che sia vuota. Una canna che pensa, precisa il filosofo senza commuovermi troppo perché tanto alla fine si pensa quel che si può pensare, si elabora quello che si contiene. Sarei quello che sono se dentro le mie orecchie, nelle fasi cruciali della mia vita, anziché le canzoni di Lucio Battisti avessero versato i brani di Tiziano Ferro? No di certo. Lex orandi, lex credendi, ha formulato Prospero d’Aquitania. Si crede in quello che si prega, si ama come si canta. Il cantante di Rieti, sia nell’era Mogol che nell’era Panella, si è mosso nell’ambito scritturale del ”maschio e femmina li creò”, mentre il cantante di Latina, nonostante pronunci Dio con la D maiuscola (le maiuscole non soltanto si vedono, pure si sentono), racconta amori piuttosto indifferenziati, e anche impegnandomi molto non capisco se è lui che parla a lei o lei che si rivolge lui o forse, chissà, lui a lui, e ci siamo capiti. Povero Tiziano, non è tutta colpa sua, è il rigido catechismo omosessualista e femminista delle televisioni, anche e soprattutto di Stato, che dai e dai ha distrutto diversità e vocaboli, fin laggiù nel Basso Lazio. Nei suoi testi c’è l’italiano sgenerato delle ragazze che, quando stanno per lasciarti, dicono ”Ho incontrato una persona” anziché ”Ho incontrato un uomo”, forse perché un uomo, un vero uomo, si dà per scontato non possa più esistere. Chi può ancora permettersi di calcare la parola ”femmina” in una canzone? Giusto un personaggio ruspante a cui non manca il coraggio di spalancarsi la camicia sul petto villoso, il paesano Ligabue, che comunque va per i cinquanta. Profuma di antico e d’intollerabile sopraffazione il culmine di Umberto Tozzi: ”Fammi abbracciare una donna che stira cantando”. Bastano le prime note di quella canzone meravigliosamente rudimentale perché nelle pupille del maschio cominci a proiettarsi il sogno domestico di prenderla da dietro mentre mette a posto le camicie. Musica passata, machismo scaduto se addirittura Mogol, al Parma Poesia Festival del 2009, per spegnere una polemicuzza precedente si è piegato ad approvare le omorelazioni siccome ”quello che conta è il sentimento”. Io c’ero, sul palco dove il vecchio paroliere anticonformista si conformava al mondo, e appena tornato a casa mi sono consolato riascoltando per ore il Battisti panelliano, quello marezzato di sadomasochismo (che dopo la riforma del diritto di famiglia è l’ultima ridotta dei ruoli) e dove a calare il ”sipario di capelli / sopra l’armamentario voluttuario” (l’elegantissimo, letteratissimo, ariostesco pompino de ”L’apparenza”) è senza dubbio una donna. E il cinema? James Bond è stato un immenso educatore non solo sentimentale, sicuramente mi deriva da lui l’estremismo automobilistico racchiudibile nello slogan ”O Aston Martin o niente”, e quindi niente. Perché la velocità è diabolica ma se è davvero bella, sfrenatamente bella, allora magari vale la pena andare all’inferno a duecento all’ora (andarci in Mercedes o in Alfa Romeo, che sciocchezza). I libri? I libri si scelgono liberamente? Conducono alla formazione di una consapevolezza propria, autonoma? Ma quando mai, sono idee da spot pubblicità progresso, da colonna sonora di Giovanni Allevi, da alto patrocinio della presidenza della repubblica. L’imitazione in questo campo è una regola, i frequentatori di librerie sono attirati dalle pile di volumi come gli animali al pascolo dai mucchi di fieno. Il lettore è una bestia, ma che coscienza e coscienza. Lo sapete perché gli editori si disperano più per la distribuzione che per la produzione? Così come non può esistere un grande poeta bulgaro (Montale dixit), non può nemmeno ipotizzarsi che dalla gloriosa casa editrice Carabba di Lanciano scaturisca un best-seller. Il lettore italiano (lo straniero non so) si convince a comprare un libro solo quando gli viene messo fisicamente sotto il naso. Per un piccolo editore piazzarsi davanti a ogni potenziale acquirente è pressoché impossibile, un grande invece è avvantaggiato: per lui non è impossibile, per lui è soltanto difficilissimo. Una donna con incarico importante in prestigiosa azienda del Bresciano, non della provincia di Crotone, mi chiese preoccupata come potesse procurarsi un mio libro Mondadori appena uscito. In libreria, magari. Anche chi conosce l’esistenza di questa curiosa attività commerciale ignora quasi sempre l’istituto della prenotazione: se non trova subito il volume desiderato se ne torna a casa a desiderare qualcos’altro, più reperibile, oppure si serve direttamente dal bancone vicino alla cassa, il cosiddetto acquisto d’impulso (ammutolendo in questo caso gli innumerevoli autori che alle case editrici propongono testi senza titolo, come se fosse un dettaglio, come se le vendite di saggi e pamphlet firmati da autori non televisivi non dipendessero pressoché esclusivamente dal titolo). L’unica speranza è internet, i siti come www.ibs.it dove i libri ci sono più o meno tutti e il lettore infingardo non ha più scuse, non ha più nemmeno l’alibi di abitare a Borgo Val di Taro o a Minervino Murge, te li mandano perfino lì. Mi compiaccio di essere più libero, ci vuole poco, degli ovini che si fanno arredare il comodino da Fazio e Marcorè, eppure anch’io sono stato determinato. Se da ragazzo non avessi potuto frequentare l’efficiente, monumentale, supercentrale e superfornita Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia non avrei certo letto ”La filosofia nel boudoir”. Se in quel periodo fossi stato residente a Trani, dove ricordo una biblioteca miserrima dentro un garage di periferia con impiegati molto impegnati a fumare sigarette, il Divino Marchese l’avrei conosciuto più tardi, quando dei libri potevo permettermi l’acquisto, e l’effetto sarebbe stato diverso. Forse sarei stato una persona normale se fossi cresciuto nella disservita provincia pugliese. Dentro di me non c’è niente di mio, tant’è vero che sono determinato perfino dai vestiti. ”Mi accorgo che anche il fatto di avere una divisa leggermente differente influisce sul nostro comportamento” scrive l’ex poliziotto Giacomo Gensini nel suo ”Genova sembrava d’oro e d’argento”. Si diventa aggressivi o mansueti a seconda di abiti e calzature, scarponi e suole carrarmato eccitano cariche e manganellate, quando metti i sandali diventi francescano e vorresti parlare con gli uccellini. Ma che coscienza e coscienza. Apro l’armadio, guardo la fila di giacche blu e decido che cosa sentirmi: accidioso con Boglioli, superbo con Borrelli, avaro con Liverano, lussurioso con Aimi e Gigliotti… Il colore è lo stesso ma basta la forma della spalla (ognuna è diversa) per cambiare la consapevolezza che ho di me. E i pantaloni? Possiedo ancora alcune paia di vecchi calzoni con le pince, nonostante cerchi di distruggerli portandoli e straportandoli e strapazzandoli il più possibile (il processo di logoramento è molto lungo per almeno due motivi, primo non faccio il cavallaro né il taglialegna né l’orticoltore, secondo compro solo capi di alta qualità quindi resistenti). Dunque, i vecchi calzoni con le pince mi imbolsiscono il carattere, mi accentuano le paure, il misoneismo, con le pince non ho quasi il coraggio di uscire di casa; i pantaloni con la tasca verticale sono abbastanza neutri, mi fanno l’anima grigia; i pantaloni con la tasca orizzontale (attenzione: non sto parlando di jeans, non parlerei mai di jeans se non per denigrarli, sono un patriota) mi regalano una nuova consapevolezza: certi giorni grazie a un cinquetasche Incotex mi sento capace di riconquistare Fiume, o almeno Capodistria. Come potrebbero rispondere a simili dati di fatto i preti per atei, i coscienziali, i Tettamanzi e Martini? Non ci riuscirebbero, sono autistici rispetto al reale questi preti irreligiosi (l’idea di religione privata è una contraddizione in termini, religione significa legame e uno mica si può legare da solo, a sé stesso, salvo casi di bdsm estremo, delirante e pericoloso). In seminario non gli hanno insegnato nulla? Più probabilmente si sono dimenticati tutto, a cominciare da San Paolo: ”Mangiano le carni come se fossero davvero immolate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata” (1 Corinzi 8, 7). L’apostolo aveva chiaro quanto la coscienza sia atrofica, quanto poco possa opporre al muscoloso contesto, eppure nel I° secolo non c’erano la televisione né la scuola pubblica, i veicoli dell’odierno totalitarismo del relativismo. Lo sapeva così bene perché era cristiano. Sì, San Paolo seguiva Cristo e non l’aria che tirava. Conosceva il Vangelo, lui. C’è una voce che risolve la questione una volta per tutte, se soltanto la si vuole ascoltare: ”Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù definisce incoscienti gli uomini, ed è la loro salvezza: un assassino consapevole è difficile che possa venire perdonato, è destinato ad andare al diavolo. Quindi lavorano per riempire l’inferno i cardinali coscienziali che approvano l’uomo che sa quello che fa, qualunque cosa faccia. Martini, il nostro Don Letizio, risponde melenso alle lettrici che hanno abortito senza mai parlare di colpa, che quindi rimane, e peserà sulla donna per sempre o fino a quando un confessore la libererà dicendole che ha ucciso. La verità rende liberi: che altro? La parola coscienza è talmente sputtanata che una persona decente non può pronunciarla senza vergogna. Nell’ultimo Catechismo cattolico se ne parla ancora troppo, quattro pagine su quell’araba fenice, che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, che sarebbe la coscienza morale capace di farsi ascoltare dall’uomo prudente. Si vede che pure lui è diventato sordo, per colpa dell’iPod o forse no, per colpa d’altro, siccome già qualche anno prima dell’invenzione delle cuffiette, diciamo quarto-quinto secolo, c’era qualcuno, sì, Sant’Agostino, che dubitava dell’umana capacità di intendere. Quattro pagine che ai più avvertiti sarebbero risultate già obsolete negli anni Cinquanta, quando Augusto Del Noce riassunse la modernità nel soggettivismo, ”rifiuto di ogni autorità superiore alla coscienza individuale, con l’implicazione del rifiuto della sovranità di Dio”. Quattro pagine che bisognerebbe saggiamente ridurre a zero: affermare che ”l’educazione alla coscienza è indispensabile per esseri umani esposti a influenze negative e tentati dal peccato a preferire il loro proprio giudizio” è proclamare l’indispensabilità dell’impossibile. L’educazione alla coscienza? Dove e quando? Su Rai Educational? Nelle università di cui si ignora il livello della produzione intellettuale fino a quando gli studenti intonano in corteo ”Gelmini vaffanculo”? Lasciare un uomo solo con la propria coscienza significa abbandonarlo alle preponderanti forze del secolo, alle mode, ai mimetismi, alle maggioranze. ”Un tempo il precetto era: seguire la verità” ricorda Emanuele Severino, ”oggi non si crede più in essa, resta lo scontro fra le forze”. Prive di riferimenti che non siano sé stesse, le animule si aggirano vagule e blandule in una immensa Neverland dove un Nevergod col nevernaso di Michael Jackson e la neverlingua di Carlo Maria Martini ha piazzato trenini e luna park. ”Ascoltate la vostra coscienza!”, fischia la locomotiva. ”Ascoltate la vostra coscienza!”, sibila l’otto volante. Ve lo ricordate l’omino ”più largo che lungo, tenero e untuoso, con un visino di melarosa”? Non vi sembra la fotografia di Sua Eminenza Dionigi Tettamanzi? E il pinocchiesco paese dei balocchi, il paese dove non si studia mai, dove ”le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre” non assomiglia all’Italia repubblicana che si rotola sotto il pulpito del Cardinalino di Burro? Non sono indispensabili Matteo, Marco, Luca e Giovanni per sapere come vanno a finire certe cose, può bastare Collodi. E’ presto detto: si finisce somari venduti al mercato. Con le orecchie lunghe, la coda, una greppia di paglia tritata e un destino da pelle di tamburo, una volta azzoppati. Io perché porto sempre la croce al collo? Per non finire somaro venduto al mercato. Per non dimenticarmi mai di essere vuoto, sotto le giacche Borrelli e i pantaloni Incotex, per restare aperto al soffio rianimante, per praticare l’ubbidienza anziché la coscienza. L’ubbidienza o anche la disubbidienza, chiaro, che è pur sempre una relazione. Dico meglio: che è pur sempre una relazione con la verità. L’uomo è grande solo quando entra in rapporto con grandi cose, come hanno detto con impressionante consonanza Malebranche, Giussani, Reagan. La cosa più grande è Dio, altra cosa di notevoli dimensioni è il Decalogo, quei dieci comandamenti che consentono un bel risparmio su dubbi e macerazioni e masturbazioni con la coscienza che non c’è. La coscienza dei coscienziali è per l’appunto una sega, un improduttivo fai-da-te, è l’idolo di Isaia 44, il pezzo di legno costruito dal falegname che subito dopo gli si prostra davanti e lo prega: ”Salvami, perché sei il mio dio!”. I coscienziali sono corruttori (specialmente corruttori dei piccoli, da pietra al collo e un tuffo dove l’acqua è più blu) così come corruttore era Socrate quando esortava i giovani ateniesi al nosce te ipsum. Lo conferma Pierangelo Sequeri ventiquattro secoli dopo: ”Così sprofondo dentro me stesso e vedo il buio. Ma cosa devo guardare? Cosa devo trovare?”. Dentro di me, dentro di me Camillo, niente, al massimo il desiderio di arricchire con qualche maglia Zanone il guardaroba autunno-inverno. Ci sono persone, di solito maschi non tanto giovani, che pensano di poter essere salvate da un editoriale. Ci sono persone, di entrambi i sessi e di ogni età, convinte che tutto potrebbe essere risolto da un politico o da un filosofo o da uno scienziato, personaggi non molto più utili di un pezzo di legno e senza nemmeno delle belle venature. Davvero, c’è in giro una superbia piccolissima, che si misura con cose minime: nani sulle spalle di nani, e ciò nonostante impettiti. Ma che coscienza e coscienza, infine: o si è ispirati o si è condizionati, non esistono altre possibilità. E’ così rinfrescante saperlo.