Camillo Langone, Manifesto della destra divina, Difendi, conserva, prega! Vallecchi 2009, 13 gennaio 2010
TABARRO VERSUS ZARA
Il re di Israele e Giosafat re di Giuda sedevano ognuno sul suo trono, vestiti dei loro mantelli. (Primo libro dei Re 22, 10)
Odio la modernità perché non è praticità, come dicono, ma ideologia. E perciò mi fa ammalare. Se domenica avessi usato il tabarro non avrei preso freddo ma il tabarro nemmeno in Val Padana si può usare durante il giorno, a meno che non si voglia passare per bizzarri. Il collo di astrakan, alzato, mi avrebbe protetto la gola come nessuna sciarpa è in grado di fare. Le falde di lana mi avrebbero mantenuto le mani più calde di qualsiasi guanto. Il tabarro è semplice, elegante, economico (dura una vita), la sua unica colpa è essere antico. L’italiano contemporaneo volendosi moderno si è condannato ai giacconi e ai cappottini, alla laringite e alle dita gelate. E perfino un conservatore come me, per non essere accusato di stramberia, deve rabbrividire. Il tabarro me lo confezionò un modesto sarto di paese, mille anni fa. Da allora nessuna manutenzione: è ovvio, se i bottoni non ci sono non si possono staccare, se la federa non esiste non si può strappare… Avrei potuto ingrassare di cinquanta chili e mi sarebbe continuato ad andare bene, non come i cappotti che dopo qualche anno e qualche bottiglia (’qualche” si fa per dire) cominciano a tirare sulla pancia. Purtroppo lo sfrutto poco, solo nelle sere invernali più brumose, ed è come girare con una stufa aderente al corpo. Ovviamente a Capodanno e a Carnevale, ma è un uso un po’ vile, folcloristico, che limita il raggio d’azione di un capo che sarebbe perfetto lungo l’intero autunno-inverno, dai Morti a San Giuseppe. Gli antenati la sapevano lunga, non c’è mezzo migliore per sconfiggere il clima orrendo che affligge i residenti dall’Appennino al Po, e pure quelli della riva sinistra. Ma l’attuale minirilancio del tabarro non è padano bensì veneziano, azzardato pressoché in solitaria dal Tabarrificio Veneto di Mirano, ed è una faccenda dongiovannesca e casanoviana, letteraria se non teatrale, insomma elitaria. Non è vero che per portarlo sia indispensabile conoscere Pietro Longhi e Giorgio Baffo, a pensarlo è il volgo, impermeabile alla bellezza ragionevole, che persevera a gelare dentro i cappotti di Zara o H & M o Vattelapesca: costano poco, ci mancherebbe, e altrettanto poco durano. Nulla di ciò che esce dalle catene dell’anomia vestimentaria verrà mai tramandato a un figlio. Prima ho detto che il tabarro dura una vita ma è un modo di dire, non un’esagerazione bensì, al contrario, un’attenuazione perché in realtà un tabarro dura più vite, per un simile oggetto valgono le parole dell’antropologo Marc Augè riguardo il monumento, ”espressione tangibile della permanenza”. ”Altari per gli dei, palazzi e troni per i sovrani non sono asserviti alle contingenze temporali e permettono così di pensare la continuità delle generazioni”. Anche il tabarro lo permette e indossarlo consente di risalire la corrente dei giorni e divenire contemporanei di Guareschi e di Verdi, immergersi nel Mondo Piccolo e nel Rigoletto come se fossero stati inventati oggi. I suoi sei metri di panno coprono la rottura generazionale del Novecento, il secolo che recise ogni filo. C’è un grande lavoro di ricucitura da fare, sotto il tabarro lo si può compiere al calduccio. I miei bisnonni sicuramente portavano tabarri o ferraioli o gabbani o altri tipi di mantelli che già i miei nonni li smisero. Poi negli anni Sessanta nacquero i giovani come categoria e fu la comparsa sulla scena del gruppo dissipatore per eccellenza, globalizzatore prima che esistesse la parola, siccome tendente a ribellarsi al proprio luogo per inchinarsi ai luoghi altrui. Come dice Nicolás Gómez Dávila: ”L’indipendenza di cui ogni gioventù si vanta non è altro che sottomissione alla nuova moda imperante”. Mi sembra quindi un miracolo che siano sopravvissuti e che all’interno dei rispettivi habitat siano anzi protagonisti di una leggera ripresa i cappotti di casentino, i fustagni maremmani, i sarner altoatesini coi bottoni d’osso o di peltro, le giacche valdostane, gli abiti sardi in velluto nero o marrone scuro oppure oliva, i dirndl o come si chiamano (da Merano a Gorizia cambiano nome e foggia ogni pochi chilometri) i costumi da cameriera alpina che fanno aumentare il fatturato dei ristoranti e mettono voglia di baciare chi li indossa*. E’ capitato a Cortina: lei avrà avuto cinquant’anni, fosse stata vestita Benetton la tavolata non le avrebbe dato uno sguardo ma bustino e grembiule rendevano la situazione birichina, operettistica, gozzaniana, e prima delle bottiglie di Lagrein arrivò l’elogio degli amori ancillari. L’abbigliamento etnico rinsalda i legami con lo spazio e libera dal tempo, dall’anagrafe. E’ sempre giovane la venere in casentino così come è sempre sardo il signore in tre pezzi di velluto. Abito sommamente identitario quest’ultimo, talmente etnico da risultare politico: rappresenta lo sdegno della Sardegna interna verso la Costa Smeralda. Se fossi nativo di Arzachena, col velluto nero ci andrei anche in spiaggia, in spregio a Lele Mora, per rimarcare la differenza con i turisti osceni. Pezzi seminudi di biologia, con la data di scadenza appesa a rotoli, cicatrici e smagliature. L’abbigliamento etnico, regionale, tradizionale, è dalla parte dell’uomo ancor prima di essere indossato: prodotto nelle botteghe degli artigiani locali e non nei capannoni della Cindia, venduto in piccoli negozi ognuno diverso dall’altro e non in grandi catene che uniformano il paesaggio urbano, rendendo Bolzano uguale a Catanzaro. Intabarrarsi, casentinizzarsi, sarnerizzarsi è come rientrare in sé stessi: viene voglia di andare in chiesa o all’osteria, non al multisala. Meno che meno all’agenzia di viaggi: non c’è bisogno di partire quando visibilmente sei la meta.
* Il più bel cappotto di casentino della mia vita l’ho visto nella sartoria di Antonio Liverano, in via dei Fossi a Firenze. Era uno spettacolare becco d’oca con bottoni in corno e collo di vera volpe toscana, appena finito di cucire per una fortunata cliente. Versioni più rustiche ed economiche del medesimo capo si trovano nelle varie tessiture della zona di produzione ovvero a Stia (Arezzo). Il miglior sarto maremmano è il rumeno (ebbene sì) Florin Cristea, che a Castagneto Carducci ha ereditato la bottega del grande Morganti. Al di fuori della Valle d’Aosta, le giacche in stile montagnard della Valgrisa si trovano a Torino da Jack Emerson, a Milano da Pupi Solari, a Bologna da Sgargi. Magnifici dirndl si possono acquistare a Merano da Runggaldier. La capitale del sarner è ovviamente Sarentino (Bolzano), dove la tessitura artigianale Unterweger li confeziona da cinque generazioni. Un ampio panorama dell’abbigliamento etnico alpino è visibile da Ghedina Zùccaro a Cortina d’Ampezzo. Il negozio più attivo nella rinascita del tabarro è Arki di Reggio Emilia. Quando si parla di abiti sardi di velluto il primo nome da farsi è quello di Paolo Modolo, mastru ”e pannus di Orani, in Barbagia.