Camillo Langone, Manifesto della destra divina, Difendi, conserva, prega! Vallecchi 2009, 13 gennaio 2010
PRESEPE VERSUS ALBERO
Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. (Vangelo secondo Luca 2, 7)
Non si possono fare insieme il presepe e l’albero perché non si possono servire insieme, sono parole di Cristo, ”a Dio e a mammona”. C’è bisogno di spiegare quanto il presepe sia divino? A me non sembra, l’evidenza è palmare, Dio non si limita ad aleggiarvi ma vi è presente visibilmente nella forma rubizza e tondetta del Figlio appena partorito. Però bisogna ribadirlo, visto il numero di disgraziati che, a dicembre, al posto di un Dio che nasce preferiscono mettersi in casa un abete che muore. San Bonaventura racconta che San Francesco ”volle far qualcosa per ravvivare la devota memoria della nascita del Bambino Gesù. Dopo averne chiesto e ottenuto licenza dal Sommo Pontefice fece allestire un presepio, con del fieno dentro e accanto un bue ed un asino”. Eravamo nel pieno dell’età cristiana (Anno Domini 1223) e quasi nel centro geografico d’Italia, a Greccio. Potevo risparmiarmi il ”quasi”: secondo alcune fonti il centro d’Italia è Rieti, secondo altre è Narni, e guarda la combinazione Greccio si trova fra Rieti e Narni, in una zona di confini incerti che nel corso della storia è stata di volta in volta di una regione o dell’altra, come se non potesse appartenere fino in fondo a nessuna. Sembra che lo Spirito abbia voluto suscitare questa rappresentazione in un luogo non connotato, neutro, percepibile come proprio da tutti gli italiani: né Nord né Sud, né Est né Ovest. Ovviamente il presepe è rivolto a tutti i cristiani, quindi a tutti gli uomini, ma certo noi compatrioti di Francesco dovremmo tenercelo caro in sommo grado. Eppure mi è toccato di sentir dire, da un cattolico confuso (ce ne sono tanti), che il presepe va benissimo in pianura mentre in montagna è meglio l’albero. Come se il cristianesimo fosse valido a Treviso e non a Belluno. I relativisti non riescono a farselo entrare in zucca: cattolico vuol dire universale, dal significato di ”katholicos” in greco. ”Il cristianesimo non ha nessuna tendenza alla delimitazione” ha detto Urs von Balthazasar, figuriamoci se può accettare di farsi rinchiudere entro confini geografici o climatici. Fra l’altro Greccio non è in pianura, è nel cuore dell’Appennino, e il convento del primo presepe si trova oltre i seicento metri di altitudine, in mezzo a un bosco. Non sarebbero mancati gli alberi, a Francesco, se avesse voluto farne un uso religioso: ma il Santo non era pagano, e voleva mostrare Dio che diventa bambino, non che diventa pigna. Il presepe è divino perché presuppone uno sguardo onnisciente. Specie il presepe napoletano pullulante di uomini, animali, cose. Attraverso la cura del particolare il presepista dà valore a ogni singolo infinitesimale elemento. ”La salvezza del piccolo” l’ha definita il filosofo Giorgio Agamben. Tutto viene attentamente considerato affinché tutto venga salvato, i presepi più minuziosi sembrano l’illustrazione delle parole di Gesù: ”Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati”. Don Giussani ha detto una frase che può sembrare bizzarra, o disgustosa, ma che in certe ore di deriva mi è servita da salvagente: ”Dentro il Mistero anche l’acciuga mangiata dal tonno trova la sua redenzione”. Ho visto un milione di presepi e nemmeno quelli più barocchi e ridondanti prevedevano la presenza di pesci guizzanti eppure è chiaro, siamo tutti acciughe e la stella del presepe ci indica la direzione per non finire in salamoia. Se il presepe è iperfigurativo l’albero tende all’astratto quindi prescinde dal reale e dall’umano, infatti si può stilizzare, può diventare segno grafico, triangolo verde o rosso, marchio. Provateci voi a stilizzare un’elaborata scenografia con dentro Gesù, Giuseppe, Maria, asino, bue, stella, angeli, pastori, pecore, Re Magi, per non parlare delle case, delle botteghe, delle montagne, dei ruscelli… Il presepe è catechismo visivo e perciò bisogna rispettare i tempi: il 24 sera (non prima!) il Bambino va posto nella mangiatoia, i giorni successivi servono per fare avvicinare i Re Magi, qualche centimetro al giorno sullo sfondo della carta azzurra, perché arrivino a Betlemme solo all’Epifania. Quindi il presepe è in perenne movimento, come la vita, mentre l’albero di Natale è più immobile di un albero normale, il che è pure giusto, essendo morente oppure mai nato. L’unica trasformazione alla sua portata è perdere gli aghi, se non è di plastica. In quest’ultimo caso può soltanto puzzare. Il presepe piace ai bambini, fa tornare bambini, fa fare bambini: la notte frenetica di Capodanno, alcolica se non tossica, è un sabba di sfregamenti fuggevoli e preservativi, la serena notte di Natale fa immaginare a un uomo e a una donna che si amano un bambino di un anno e tre mesi, fra due anni, depositare il pargolo divino nella mangiatoia (è il più piccolo di casa ad avere questo compito, alla fine della miniprocessione domestica durante la quale è dolce intonare ”Tu scendi dalle stelle”). Nelle statuine c’è una poesia enorme e inerme, si spezzano facilmente, spetta a noi difenderle. Il poeta Davide Rondoni ha trovato parole di fuoco per esortare a farlo: ”Voglio le ronde di mamme. Delle ronde che vigilino sotto Natale se negli asili e nelle scuole si faranno i presepi. Madri che non lascino che sia rubato il Natale dagli occhi dei loro bambini. Nei giorni in cui si decide della presenza o dell’assenza di un segno. Ovvero della presenza o dell’assenza di un significato”. Finanche la lingua perde senso con l’abete, parassita vegetale che sfrutta la parola significante ”della nascita” senza essere capace di rappresentarla. Nascita di chi, di che cosa, se non c’è un bambino? Magnifica lezione di italiano, oltre che di religione, e di storia, e d’arte, è il presepe. L’albero mammonico è sospinto dagli spot anglofoni, dai film hollywoodiani e coloniali, dai centri commerciali, dalla svedese anticristiana Ikea, è accettato da molte religioni e da tutte le irreligioni. Solo il presepe appartiene alla vera religione annunciata da tutti i profeti, la religione del Dio fatto uomo, del Creatore che si abbassa per innalzare la creatura. Solo il presepe si adatta a ogni luogo: sulle Alpi i pezzi sono di legno, a Napoli di terracotta, a Lecce di cartapesta, e al Sud il popolano è colto nell’atto di mangiare spaghetti mentre al Nord sta per affrontare una polenta d’oro. L’abete è imposizione omologante che spalma sul pianeta una specie tipica del Nordeuropea o dell’alta montagna. E che nessuno provi a tirare in ballo inesistenti tradizioni celtiche o cosmiche, sto parlando di un fenomeno che attiene all’idolatria contemporanea, non all’antico paganesimo: il primo esemplare fu addobbato in Germania quattro secoli dopo il presepe francescano; a Parigi arrivò nel 1840; in Italia dopo la seconda guerra mondiale, piazzato dai mercanti nel tempio famigliare dal quale va cacciato al più presto. Gli abeti devono starsene lassù sulle montagne, per la gioia degli scoiattoli, e il presepe quaggiù per la gioia degli uomini. Non umanità astratta ma persone concrete: i devoti che nel presepe vivente incarnano i personaggi della Notte Santa, gli artigiani che per il presepe di statue realizzano piccoli capolavori (penso ad Angela Tripi di Palermo e agli scultori della Scarabattola di Napoli) oppure figurine anonime ed economiche, da bancarella, gradite a Dio nella stessa misura. Ogni presepe sussurra al cuore e spiega alla mente: gli angeli significano l’esistenza di una sfera superiore, di un mondo oltre il mondo; l’asino e il bue di una natura non più ferina ma addomesticata e resa amica; la Madonna di un amore che è l’unica cosa che conta; i Re Magi di un annuncio rivolto al mondo intero (agli europei di Gasparre, agli africani di Baldassarre, agli asiatici di Melchiorre). Il resto, tutto il resto che occupa, incrosta, soffoca il Natale, sono soltanto palle.