Camillo Langone, Manifesto della destra divina, Difendi, conserva, prega! Vallecchi 2009, 13 gennaio 2010
MURI VERSUS MONDO
Chi disfà un muro è morso da una serpe. (Ecclesiaste 10, 8)
”Non accetto inviti fuori dalle Mura Aureliane” proclama il mio eroe, un personaggio di ”Mai alle quattro e mezza” di Marco Ferrante, epocale quanto sconosciuto romanzo Anni Novanta che, fra l’altro, è un inno alla toponomastica della vecchia Roma. Personalmente, petit blanc pusillanime qual sono, soffro di attacchi di angina solo all’idea di uscire dal tracciato delle mura di Parma: dentro, pasticcerie odorose di brioche, tavolini al sole della piazza dove sorseggiare Negroni perfetti, ragazze che passano in bicicletta, parchi ombrosi con platani monumentali, cupole affrescate, osterie piene di amici e di bottiglie, messe in latino, concerti di campane; fuori, puzza di benzina, bestemmie agli incroci, svincoli che se non stai attento ti ritrovi in tangenziale contromano, milioni di cartelli dai colori offensivi, scritti in una lingua che non è quella di mia madre. Parma vuol dire scudo perché scudiforme è la città disegnata dalle vecchie mura: abbattute un secolo fa da amministratori malvagi che oggi sono meno che polvere, ancora difendono dal caos i cittadini fedeli. Qui come in mezza Italia la cerchia scomparsa segna il confine tra l’automobile e l’uomo, il respiro e l’asfissia, la musica e il rumore. Gli urbanisti romani avevano sempre ragione e nelle città sulla via Emilia il centro di gravità permanente, oggi come duemila anni fa, è all’incrocio fra cardo e decumano. La piazza, già foro, è l’occhio del ciclone dove osservare a distanza di sicurezza il dispiegarsi dell’entropia. Deambulando tra l’edicola e il caffè, la libreria e la boutique, appare ovvio che contro quella malattia mortale che è il tempo l’unica cura efficace sia lo spazio. Fermare le lancette è impossibile ma impedire alle pietre di spostarsi non è poi così difficile, basta non scatenare i bulldozer. Eppure c’è sempre chi ci prova, a schiacciare tutto, in ogni epoca. ”Le città cambiano più velocemente del cuore di un uomo” disse Baudelaire che cercava di dimenticare Georges-Eugène Haussmann con l’hashish, e qualcosa del genere pensava Debord, che provò a obliare un’altra cavalletta, Renzo Piano, con il vino. Tutto inutile, avrebbero dovuto trasferirsi a Bergamo Alta, dove la mortifera velocità e il pernicioso cambiamento sono tenuti a bada da un doppio livello di protezione: 1) solida muraglia con porte strette dove non passa più di un’auto alla volta; 2) posizione elevata che rende rarefatta e disagevole qualunque attività che non sia gettare sguardi, doverosamente schifati, sull’informe città sottostante. Anche nella modernità le mura continuano a offrire un ampio ventaglio di servizi. Difendono Siena ancora nel 1944, quando sta per essere spazzata dalla divisione Goering in rabbiosa ritirata: su consiglio di un generale prussiano amico delle arti viene murata la Porta Romana e i sassoni vanno a far danni da un’altra parte. Salvano da un mucchio di malattie respiratorie gli abitanti di Lucca, ”la città dall’arborato cerchio”. Forniscono erotici anfratti agli innamorati di Ferrara. Danno lo spunto a Piero Bigongiari per scrivere un libro su Pistoia e a Pier Paolo Pasolini per filmare un documentario su Sana’a, nello Yemen. Offrono riparo e domicilio a decine di architetti che siccome non sono mica fessi abitano tutti nei centri storici costruiti dagli avi piuttosto che nelle periferie dopostoriche, anzi postumane, progettate da loro. Salvano Bari Vecchia dai baresi nuovi cosicchè, il bel giorno in cui vi sarà pienamente ristabilito l’imperio della legge si potrà tornare ad abitare all’ombra di San Nicola calcando le stesse pietre dei crociati. Regalano a Rabin e Sharon l’idea di risolvere una volta per tutte la questione israelo-palestinese mettendo tra i due popoli, anziché il dialogante trattino, una monologante muraglia che il ministro della difesa Ben Eliezer realizza sotto forma di 364 chilometri di cemento, torrette, telecamere, filo spinato e ovviamente mitragliatrici. Pochi mesi di lavoro per un risultato che riporta ai fasti di indimenticabili manufatti al servizio dell’uomo pacifico quali la Muraglia Cinese e il Vallo di Adriano. Si torna a mangiare nelle pizzerie di Tel Aviv senza che il pomodoro si trasformi da un momento all’altro in sangue. Ma quel che più rincuora chi si gode l’aperitivo nella ”circolare materna onniabbracciante” piazza Garibaldi è il segnale di ritorno all’ordine, dopo tredici anni confusi cominciati con le picconate magnifiche e progressive, così poco prudenti, al muro di Berlino.
Purtroppo gli europei hanno perso, da tempo, l’umiltà dell’intelligenza, e non traggono mai lezione da nulla. Lo scioccamente ottimista accordo di Schengen è tutt’ora in vigore, consentendo la sfrenata circolazione delle persone dal Canale di Sicilia (soglia non proprio insuperabile) a Capo Nord. I politici aperturisti non riconoscono l’esistenza del male e condannano i loro popoli a essere invasi, spalancandosi al mondo il cui principe, avvisa Gesù nel Vangelo di Giovanni, ha un nome preciso: Satana. Il filosofo René Girard, l’aquila di Stanford che coglie il passato remoto, il presente profondo e l’apocalisse ventura con un unico sguardo dall’alto, ha spiegato: ”Le frontiere hanno la funzione di contenere la violenza. Far cadere i confini tra gli Stati rappresenta un pericolo di guerra”. Basterebbe osservare come si costruiscono sommergibili e navi da crociera. Nessun ingegnere, nei cantieri, si sognerebbe di mettere in dubbio l’utilità dei compartimenti stagni, il mare fa paura, affogare non piace a nessuno, nemmeno agli europeisti e terzomondismi più incalliti, mentre invece i politici al timone di interi Stati preferiscono parlare come titolari di bottegucce equosolidali e ammannire una retorica allo zucchero di canna, una logica che fa acqua da tutte le parti. Tanto ad affondare saranno gli altri, pensano, noi abbiamo la scorta e la villa coi cani mordaci e gli antifurti e la recinzione alta due metri. Sono uomini quanto mai profani eppure nella loro mente occupata dai sondaggi e dalla televisione confusamente si fa largo un’idea remotissima, già espressa in sanscrito, in antico persiano e in ebraico: che il paradiso sia uno splendido parco circondato da mura. Un giardino lussureggiante ricco di ombra e di acqua, alberi, fiori, frutti, bestiole, dove si può vivere felici e contenti solo perché un’alta barriera impedisce al disordine esterno di rovesciarsi dentro. Di un piccolo, modesto, tenero paradiso milanese di primo Novecento ha scritto, con giustificato rimpianto, Sua Eminenza Giacomo Biffi in ”Memorie e digressioni di un italiano cardinale”: ”Noi potevamo giocare liberamente entro i Giardini pubblici, senza incontrare pericoli e senza suscitare obiezioni nelle nostre madri, in grazia dell’alta cancellata di ferro battuto che delimitava quel parco. Nelle nuove zone di verde non si è prevista alcuna delimitazione: sarebbe apparsa una manifestazione di poca fiducia nel senso morale delle coscienze. Così quelle oasi, lasciate senza difesa, sono state consegnate alla prostituzione, allo smercio della droga, agli appuntamenti della malavita. Diventate infrequentabili sono di fatto precluse ai ragazzi, alle mamme coi loro bambini, ai pacifici anziani, alla normale umanità”. E’ lo stesso Biffi che nel 2000, dalla cattedra diocesana di Bologna, chiese a Cesare di comportarsi da Cesare quindi di smettere di baloccarsi con pietà cancrenogene e di cominciare a regolare l’immigrazione: ”Andrebbero preferite le popolazioni cattoliche o almeno cristiane, alle quali l’inserimento risulterebbe enormemente agevolato”. Ovviamente rimase una voce nel deserto, subito sommersa da dileggi, scotimenti di testa, grida finto-scandalizzate, risolini, eppure nell’epoca in cui nessun continente sa più stare fermo al proprio posto è l’unica opzione ragionevole, fra l’altro memore dell’alta lezione dell’Aristotele politico: ”Quanto alle mura, chi sostiene che non devono averle le città pensano in modo troppo antiquato, tanto più vedendo smentite quelle città che si facevano belle di tali smancerie”.