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 2010  gennaio 13 Mercoledì calendario

INDISSOLUBILITA’ VERSUS DIVORZIO


"Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi" (Vangelo secondo Matteo 19, 6)

Il divorzio deprime la demografia, quindi peggiora i conti Inps e accresce il bisogno di immigrati, col disordine che ne consegue. Il divorzio aumenta i nuclei monopersonali e perciò l’inquinamento e il consumo di territorio (un’abitazione per due persone è più piccola di due abitazioni per una persona sola). Il divorzio distrugge i legami di mutuo soccorso famigliare e scarica chi si trova in difficoltà sull’assistenza sociale e sul servizio sanitario nazionale, quindi sul contribuente (e non è detto che i contribuenti durino in eterno). Il divorzio origina assenza paterna che produce criminalità giovanile ed è causa della maggior parte dei suicidi di adolescenti (fonte: United States Department of Health and Human Services). E’ indispensabile e urgente una tassa sul divorzio, per una questione di giustizia: gli alti costi sociali di separazioni et similia non possono più essere sostenuti da chi non ne è responsabile. Perché mai divorziati edonisti, spesso riccastri, devono far pagare al prossimo, gente che magari fatica ad arrivare alla fine del mese, le conseguenze dei propri capricci? Gli avvocati dovrebbero diventare sostituti d’imposta e aumentare le proprie parcelle in proporzione. Il divorzio andrebbe tassato come viene tassato il fumo, altro vizio nocivo a sé stessi e agli altri che una pesante fiscalità si propone di comprimere il più possibile. Le ragioni più circostanziate contro la follia in oggetto le ho trovate nel libro di un avvocato bolognese, Massimiliano Fiorin: ”La fabbrica dei divorzi” (San Paolo). Può sembrare strano che un antidivorzista sorga dalla categoria, quella dei legali, che dal divorzio ricava più vantaggi. Invece, a pensarci bene, una logica c’è. Gli avvocati hanno la possibilità di conoscere meglio di chiunque altro gli effetti devastanti della disgregazione famigliare: chi non è del tutto incosciente non può rimanerne almeno turbato. Certo, nessuno ama pensare che il proprio lavoro sia nocivo, forse perfino i camorristi, assieme alla moto, al casco integrale e alla pistola, prima di partire per un omicidio si forniscono di qualche autogiustificazione. La più peculiare caratteristica dell’uomo contemporaneo è il non sentirsi colpevole di nulla. La colpa è sempre degli altri, della società, del destino cinico e baro. Solo la minoranza a cui appartengo si percuote il petto ogni domenica recitando in chiesa l’atto penitenziale: ”Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Solo una minoranza eppure anche i componenti della maggioranza, increduli o accidiosi che siano, possono riconoscere il bene e il male se si pongono onestamente di fronte alla realtà. ”Il mondo stava andando di male in peggio anche per colpa di certi giovanotti deboli, smidollati, che mandavano a puttane le famiglie come fosse un bicchier d’acqua. Quarantenni senza coglioni, gente che assecondava il caos.” Estraggo questa citazione indissolubilista dal romanzo di un altro avvocato, Romolo Bùgaro. Ma ”quarantenni senza coglioni”, per definire i clienti che affollano gli studi legali per implorare allo Stato una libertà che useranno malissimo, ancora non basta. A parte che nella maggior parte dei casi l’assenza di attributi, a meno che non sia intesa come metaforica, non c’entra: oggi non sono gli uomini ma le donne a chiedere con maggiore frequenza la separazione (71,7% contro 28,3%). Ci vuole uno scrittore implacabile come Vitaliano Trevisan per spogliare l’ipocrisia divorzista e sputarle addosso: ”Tutte quelle frasi insulse sul rispetto reciproco, sulla devozione, sulla fedeltà, in salute e in malattia, il tutto recitato davanti al mondo, regolamentato e sottoscritto per legge: finché morte non vi separi. E subito dopo un’altra legge ci permette di disattendere completamente tutto ciò che un attimo prima ci si era così solennemente promessi, ci permette di mancare, in tutta legalità, alla parola data. E così la nostra parola non vale più un cazzo”. Per fortuna dei divorzisti, dei divorziati e dei divorziandi gli italiani non leggono nulla oppure leggono Augias o Brown che è come dire un’altra volta nulla (nulla capace di increspare l’encefalogramma, intendo). Soprattutto guardano la televisione, che dalle famiglie riscuote un canone per diffondere il verbo antifamigliare. L’altra sera, su non ricordo quale rete Rai, c’era un ex presidente di squadra di calcio, un ex latitante come spesso gli ex presidenti di squadre di calcio, un uomo tracimante vanità oscena e amoralità totale come quasi sempre gli ex o anche non ex presidenti di squadra di calcio, insomma una persona la cui parola non ha mai valso un cazzo, per citare Trevisan, che indicava compiaciuto alle telecamere la millesima moglie seduta in prima fila, giovane, esotica, comprata a peso su qualche isola dei mari del Sud. Il pubblico naturalmente di merda ha naturalmente applaudito. Anche le donne applaudivano, non ho capito bene il motivo, forse per mimetismo, scimmiesca imitazione. L’applauso della componente maschile mi è apparso subito più comprensibile. Quei signori attempati, esultando, hanno smascherato il proprio sogno profondo: abbandonare le consorti al proprio destino, lasciandole in eredità ai figli (se ci sono), alla divina provvidenza o allo Stato sociale, e fare come il bavoso ex presidente: procurarsi un corpo alieno e fresco, magari con la promessa della pensione reversibile. Questi sessanta-settantenni godono del diritto di voto, possiedono buoni del tesoro e azioni e gestiscono liquidazioni e non li ferma certo la saggezza biblica: ”Stillano miele le labbra di una straniera / e più viscida dell’olio è la sua bocca; / ma ciò che segue è amaro come assenzio” (Proverbi 5, 3). Intanto l’assenzio intendono farlo bere alle generazioni successive, a cui dopo la loro morte toccherà mantenere i corpi caraibici e balcanici, per decenni. In millenni di storia i vecchi non avevano mai mangiato il futuro dei giovani: oggi ci tocca vedere anche questo. Non temono il giudizio di Dio perché o non credono in Dio o credono al Dio inventato da qualche teologo improvvido che ha lasciato intravedere la possibilità, inaudita, insensata, devastante, di un inferno vuoto. Non si fanno giudicare e non si giudicano quindi hanno sempre ragione, come quel tizio che concionava dal balcone e poi ha tagliato la corda, sbagliando pure il momento, travestendosi da soldato tedesco: uno dei tanti italiani senza onore. Don Giussani ha affrontato la nullità dell’uomo contemporaneo che non è nemmeno in grado di misurare le proprie emozioni, alla maniera delle donnette nei romanzi dell’Ottocento. Il bovarismo ha conquistato l’intera società dalle cantine al tetto, senza limiti di età, sesso, reddito, istruzione, mestiere. Il fondatore di Cl raccontò la disperazione di una moglie il cui marito si era messo con la segretaria, lasciandola sola con la figlia piccola. Era andato via di casa piangendo: ”Mi rincresce del dolore che ti do, ma devo farlo, sono innamorato!”. Al tempo di don Giussani era forse un’eccezione, adesso è la norma, e si sta già passando alla fase ulteriore, un collettivo abbandonare e abbandonarsi senza più nemmeno l’alibi romantico: puramente agiti, posseduti. Adesso servono le parole di un poeta, il gigante australiano Les Murray: ”Una, dice l’amico al volante, / che valga starci insieme per sempre / non l’ho ancora trovata. / Tutte o quasi lo varrebbero, rispondo, / se lo valessi tu”. Era senz’altro un uomo senza coglioni e la sua parola non valeva un cazzo (Trevisan mi ha spinto a essere scurrile, ma stavolta ci voleva).