Camillo Langone, Manifesto della destra divina, Difendi, conserva, prega! Vallecchi 2009, 13 gennaio 2010
DURATA VERSUS INCOSTANZA
’Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Vangelo secondo Luca 21, 19)
Se tu sei un uomo sai che l’importante è durare. Una donna innamorata potrebbe anche dirti che non lo è ma tu, se sei un uomo, non le crederai. Ti verranno in mente due antichi versi che racchiudono la melanconica verità della grande poesia, uno di Cristiano Malgioglio l’altro di Carlo Porta. Nel secolo scorso Mina cantava ”L’importante è finire” e molti sanno che l’autore, appunto Malgioglio, in origine aveva pensato ad altro infinito presente, ”venire”, e ogni uomo sa che non c’è risultato senza applicazione. Il Porta due secoli fa metteva in bocca a una mamma milanese il motto araldico che ho sempre sognato di meritare: ”Dur, e ch’el dura”. Con queste parole la mamma, anzi ”la mammina”, insegnava la vita alle due figliole ancora illibate ma già molto curiose. Mi rendo conto che la poesia portiana è lontana dalla Milano contemporanea quanto le Mille e una notte dall’odierna Baghdad e questo mi fa pensare che anche per le città l’importante è durare. Ci sono città che durano e città che non durano e quelle che durano lo fanno soprattutto grazie alla natura, più resistente della cultura all’usura del tempo. Milano non è durata perché quella poca natura che aveva (l’acqua dei navigli interni) era già parecchio artificiale e quindi priva di difese contro la cultura dell’automobile che a partire dal 1929 ha trasformato i canali navigabili in via Pontaccio, via Edmondo De Amicis, via Santa Sofia, via Visconti di Modrone, coi risultati estetici e polmonari che si conoscono. Roma è durata perché abbondante di natura (i sette colli e tutti gli altri saliscendi, l’isola Tiberina…) e di archeologia che è il lento ritorno allo stato di natura, erbacce polvere e gatti, della cultura morta ma insomma non del tutto. Così ancora oggi puoi capire Roma leggendo Marziale mentre Porta è un marziano a Milano. Resta, il romantico poeta dialettale, un riflettore acceso sull’affaccendarsi umano: ”Dur, e ch’el dura” è sempre potentemente attuale.
Se tu sei un guardaroba sai che una Church si può risuolare due volte. Di durata uguale o forse perfino superiore sono le Alden, le Allen Edmonds, le Edward Green e magari le Grenson. Se tu sei un guardaroba patriottico non sei felice di constatare l’incompatibilità fra durata e scarpa italiana, infrivolita e infinocchita dallo stilismo, e oscilli tra consolazione e preoccupazione ogni volta che sui giornali leggi che Church appartiene a Prada. Però percepisci, nel profondo dei tuoi cassetti profumati di canfora naturale, che la permanenza è una nazione spirituale in cui Northampton e il Pollino, sedi di calzaturifici e di pini tendenti all’eterno, a dispetto della geografia materiale sono località limitrofe. Questa nazione ha inni, bandiere, slogan uno dei quali eccolo: ”Chi più spende meno spende”. Naturalmente funziona quando i tanti soldi non vengono devoluti alle griffe, i cui futili modelli cambiano ogni stagione, ma ad aziende specializzate che se possiedono un reparto stile lo nascondono in cantina. Protagonisti devono essere gli artigiani chiamati a chinarsi per giorni sulla stessa scarpa che abituata alla lentezza esigerà in seguito, per esprimersi a lungo, altrettanto lenta manutenzione. Per giungere sulla vetta di due risuolature bisognerà quindi affidarla a calzolai non frettolosi, capaci di montare una suola Goodyear senza ricorrere alla brutale scorciatoia dei chiodi. Con le accortezze di non usarla mai due giorni di seguito e di inserirvi sempre la sua brava forma di legno, la scarpa in questione durerà minimo vent’anni e da ogni lucidatura uscirà più bella. All’inizio sarà un po’ dura ma dandole il tempo di adattarsi al piede diventerà una pantofola.
Se tu sei un tavolo da cucina sai che solo il cibo lentamente preparato e collettivamente mangiato ti onora, e godi sotto le spinte della donna che impasta il pane per la famiglia. Non puoi sopportare la baguette industriale soffocata nelle confezioni dei centri commerciali né il finto pane artigianale delle botteghe rivestite di perlinato quasi-legno. Perché non durano. Né l’uno né l’altro. Non durano. Li compri al mattino e alla sera sono immangiabili e bisogna buttarli primo perché vicino a casa non ci sono più galline né maiali secondo perché nemmeno volendo si potrebbero usare per qualche saporita ricetta di recupero come la pappa al pomodoro. Quel pane, lievitato in fretta, in fretta diventa gesso e prende un odorino che rovinerebbe qualsiasi preparazione, anche l’acquacotta, i canederli, la panzanella, la ribollita, la minestra di pangrattato che mi faceva mia madre. Il pane in Italia sta morendo, precipita nei consumi al punto che ci sono persone che non lo comprano nemmeno più, da tanto è cattivo, e comunque quasi tutti sono quasi sempre a dieta. Se gli italiani non fossero pecore matte, se non dessero la lingua in bocca all’entropia, si potrebbe ipotizzare una resurrezione almeno quaresimale. Io il Venerdì Santo 2007 l’ho fatto a pane e acqua e mi sono trovato così bene che ho esteso lo stesso regime a tutti i venerdì delle quaresime successive e così farò fino a quando mi sarà consentito farlo. Pane ovviamente ad libitum, per arrivare a sera sazi e sacri. Ma figuriamoci, ma quando mai potrà ridiventare un costume di massa. Tu che sei un tavolo da cucina con le gambe di quercia e il piano di marmo di Carrara, tu che simpatizzi solo con i beni come te durevoli, attraverso ogni tua fibra pensi: Tanto peggio, tanto meglio. Ti basta che a fare il pane duraturo ci sia la tua padrona. Non lo farà come zia Carmela a Picerno che aggiungeva le patate per mantenere edibile l’immensa panella (tre chili? quattro?) anche un mese. No, non credo, dove lo trova la tua padrona un forno a legna? Non lo farà nemmeno come Massimiliano Alajmo, il cuoco di Padova, la cui ricetta si trova a pagina 384 del libro dedicato al ristorante Le Calandre. Fa impressione soltanto a leggerla: 1° lievito 740 gr di acqua 640 gr di farina forte 360 gr di farina di grano tenero integrale 150 gr di farina media 90 gr di farina integrale di segale 90 gr di farina integrale di farro 70 gr di farina integrale di grano saraceno 40 gr di lievito madre maturo (rinfrescato 3 volte) 8 gr di semi misti (nigella girasole papavero) 2 gr di lievito di birra. E questi sono solo gli ingredienti del primo impasto che dovrà lievitare per otto-dieci ore a otto gradi di temperatura, poi bisognerà pensare al secondo impasto che prevede l’aggiunta di farina media, farina debole, sale e malto in polvere con una seconda lievitazione di tre ore a trenta gradi a cui seguirà, dopo la formazione delle pagnotte necessariamente di grande formato (’perché lo sviluppo gustativo risulti più evoluto”), una terza lievitazione di un’ora. Dove la trova la tua padrona un’impastatrice tuffante? E tutte le farine elencate? E la nigella? Ma anche senza impastatrice, e con una sfoltita ai semini e alle farine, davanti alla tua signora panificatrice bisognerà inginocchiarsi. E’ dea del focolare, vestale del lievito immortale. Il segreto del pane che ci mette una giornata a crescere e un’infinità di tempo a decadere non è il papavero oblioso ma il lievito madre costituito da un apparente nulla (acqua, farina e un elemento scatenante ovvero yogurt bianco intero oppure miele o uva passa) che nel segreto della cucina si gonfia come ha fatto la sua pancia quando l’apparente nulla di lui ha incontrato laggiù, nel buio umido, l’apparente nulla di lei. Sono le donne che fanno il pane le donne da sposare, mica le donnette mediocremente golose che estendono l’area del diabete confezionando stucchevoli torte, sono le donne del pane lento, del pane frutto del lavoro e profumo della mensa, le muse a cui i poeti devono dedicare le loro poesie e mi raccomando che siano endecasillabi bene incatenati perché con i versi liberi, con le parole in libertà, il pane non si forma e non si mantiene. La ricetta della durata è regola e mistero.
Se tu sei un artista sai che l’importante è durare come mi insegnò il musicologo Giuseppe Tarozzi a Milano, un anno lontanissimo. Mi disse che la frase era di Hemingway ma nemmeno con Google sono riuscito a trovare ”l’importante è durare” nell’opera dello scrittore americano. Può darsi che non sia qualcosa di effettivamente pronunciato ma una sintesi successiva, come ”il fine giustifica i mezzi” di Ser Niccolò Machiavelli. Se tu sei un poeta questa verità la conosci meglio di me. Mario Luzi diventò un nobilabile solo perché sopravvisse a coetanei ben più bravi. Maurizio Cucchi, dico Maurizio Cucchi, se campa ancora un poco avrà il suo Meridiano, ci puoi scommettere, sono decenni che ciabatta nelle redazioni a Segrate, se i tarli non se lo mangiano lo notificheranno come pezzo di antiquariato, scuola lombarda d’epoca. Se tu sei un artista figurativo, uno che sa dipingere, attendi con ansia l’uscita del libro intitolato ”Sindrome dei Jalisse” del critico Luca Beatrice, contenente l’elenco degli artisti che dopo essere stati invitati da Bonami e Gioni alla Biennale del 2003 sono svaniti nel nulla. Ci saranno anche i dispersi di Kassel e tutti coloro che hanno ballato una sola estate sulle pagine di Flash Art, gente usata e gettata che poi si è data all’ippica o ai call center. Tu che lavorando di pennello ti sei attirato il disprezzo di Giancarlo Politi e Ida Gianelli fai bene a pazientare sulla riva del fiume: i cadaveri di lì devono passare. Scrivo queste righe sotto gli effetti dell’esaltante ”Gimme shelter” di Patti Smith, versione recente di una canzone del 1969 degli Stones, altri tipi ostinati. La cantante di Chicago, che sebbene fotomiracolata da Robert Mapplethorpe nemmeno da giovane fu particolarmente fica, le ha seppellite tutte le veline del rock anni Settanta, Ottanta e Novanta. Fulgido esempio di stile, teso come un missile lanciato oltre il tempo.
Se tu sei un paesaggio ti commuoverai quando una ragazza dai capelli biondi che sembrano pennellati da Botticelli, insomma una fata pre-pre-raffaellita, declamerà Joyce Kilmer avanzando a piedi nudi sulla tua erba primaverile: ”Credo che non vedrò mai / una poesia bella come un albero. / Le poesie sono fatte da sciocchi come me, / ma soltanto Dio può fare un albero”. Ti farà meno effetto, paesaggio, se a declamarti qualcosa sarò io che non sembro pennellato da Botticelli. Ma ugualmente ti farà piacere ascoltare questo passo da un libro di Pia Pera: ”Guardo un filo d’erba, e penso che in un nulla è diverso dal filo d’erba guardato da uomini che vivevano in un mondo completamente altro. Non so perché, questo pensiero mi dà una vertigine”. Io lo so, paesaggio, cosa prova la scrittrice lucchese: è la vertigine della durata. La provo anch’io quando mi inginocchio su una vecchia panca di una chiesa semibuia, quando cammino tra due file di cipressi che uno sconosciuto ha piantato secoli fa. L’uomo moderno non erige cattedrali e non pianta cipressi né querce perché non vede al di là della propria anagrafe. E’ un ipovedente. Non intende lasciare memoria di sé in quanto, forse senza sbagliarsi troppo, pensa di non avere mai detto o fatto nulla di memorabile. Se ha figli, e capita di rado, assegna loro un nome alla moda che quando entreranno nella vita adulta sarà già vecchio di vent’anni. Ho constatato il fenomeno seguente: le famiglie aristocratiche che hanno conservato i nomi di famiglia, in cui i bambini vengono chiamati ancora oggi come certi remoti avi distintisi a Lepanto, conservano i palazzi, i castelli e le vigne, quelle invece in cui le ragazze si chiamano non dico Samantha ma anche solo Sabrina, e i ragazzi non dico Kevin ma anche solo Davide, hanno invariabilmente perso tutto.
Se tu sei una pancia sai che ti servono nove mesi di attenzioni e di rispetto durante i quali, specie verso la fine, i passeggeri dei mezzi pubblici si devono alzare per lasciarti il posto. Importante è anche disporre di mille-millecinquento euri per esami pre-parto più o meno necessari e obbligatori e che nessuna amministrazione pubblica ti rimborserà mai, impegnata a finanziare notti bianche, feste del cinema, aborti. Poi servono due capezzoli che per venti settimane si offrano a morsi sdentati, e la disponibilità a preoccupazioni e spese per minimo vent’anni affinché una creatura imbelle, bisognosa di tutto, si trasformi infine, se tutto va bene, in un uomo o in una donna. Se tu sei una pancia sai che la placenta non basta a difendere ciò che contieni, la verità è altrettanto preziosa. Serve ad esempio che il matrimonio designi come da etimo la relazione incentrata su una madre, effettiva o potenziale. E che gruppi organizzati di omosessuali e altri capricciosi non risucchino tutti i diritti disponibili su piazza, lasciandoti sola con i tuoi doveri. Serve che un impegno a lungo termine unisca portatrice e facitore di pancia e che questo non venga controfirmato da avvocati o commercialisti o assessori eletti promettendo posti di lavoro e sovvenzioni, presto sostituiti da altri assessori più abili a promettere, ma da un’entità permanente: la Chiesa in missione per conto dell’Eterno. Nulla è più essenziale che domare il tempo attraverso la continuità delle generazioni. Secondo Nicolás Gómez Dávila l’anima ”nasce nelle cose quando durano” e siccome solo l’anima garantisce l’immortalità bisogna, per perpetuare, innanzitutto durare.