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 2010  gennaio 13 Mercoledì calendario

CULTO VERSUS CULTURA


Alla tua intelligenza la Chiesa mostra spettacoli assai più degni di onore e di venerazione. (Sant’Agostino, Discorsi)

’Da quando la cultura si è staccata dal culto e si è fatta culto di se stessa, non è altro che un’apostasìa” scrive Thomas Mann nel Doctor Faustus. Il teologo americano George Weigel ha analizzato le conseguenze dello strappo, che naturalmente non si limitano all’orticello letterario, bellartistico, terzapaginistico. In ”La Cattedrale e il Cubo” conviene con Mann e prima ancora con Sant’Agostino che ”il cuore della cultura è il culto”. Quando l’organo irrorante viene strappato, come in un sacrificio maya rievocato da Mel Gibson, a dissanguarsi è l’intera società, non solo la poesia. ”La storia è mossa a lungo termine dalla cultura, vale a dire da ciò che gli uomini e le donne onorano, adorano e venerano, da ciò che le società considerano essere vero, buono e nobile” e quindi nel momento in cui i verbi onorare, adorare e venerare scompaiono dal linguaggio corrente, delle due l’una: o la storia non si muove più, improbabile, o si muove in direzione sbagliata, verso il falso, il cattivo, l’ignobile. Su questa scena è entrato pestando i piedi Alessandro Baricco, che un bel giorno su Repubblica ha proposto di togliere il contributo pubblico a teatri e musei per girarlo alla scuola e alla televisione (come se quest’ultima non succhiasse già abbastanza energie di ogni sorta). Nel breve periodo non succederà nulla, fino a quando a comandare saranno i politici educati nei licei gentiliani, imbevuti di cultura umanistica, cresciuti nel mito della prima alla Scala. Qualcuno che magari ha fatto perfino in tempo a vedere la Callas. Ma quando arriveranno i Gianfranco Fini saranno, come si suol dire, cazzi: perché ostinarsi a finanziare Pergolesi se possiamo ascoltare più o meno gratis Giovanni Allevi? La sparata di Baricco ha il rumore della profezia e prefigura la discesa di un altro gradino della scala del rinnegamento. Scuole pubbliche e televisioni anche private sono le madri di tutti i conformismi, di tutte le saccenti ignoranze della nostra epoca, luoghi perfettamente impermeabili alla verità. L’università, in particolare, è refrattaria anche alla libertà, alla cosiddetta Sapienza il Papa non può parlare e le alte cariche dello Stato devono entrare protette da grossi schieramenti di polizia. Baricco quando ha fatto la sua proposta non aveva bevuto troppo, contrariamente a quanto ipotizzato da Nicola Piovani, perché l’articolo di Repubblica una sua logica interna ce l’aveva: scuola e televisione si bramano e si meritano a vicenda. I corsi di scienze della comunicazione, che continuano a macinare iscritti nonostante le prospettive lavorative pencolino verso lo zero, sono il simbolo di questo amplesso tra microcefali. Alla Cattolica, università privata, del senno, non vedevano l’ora di invitare la propagandista omosessualista Victoria Cabello e lo hanno fatto, perché il sogno di tanti studenti è lavorare in un suo programma, e intanto pendere dalle sue labbra cattive. L’analisi degli ascolti rivela che i laureati hanno seguito l’edizione 2009 del festival di Sanremo con più entusiasmo di chi ha fatto solo la scuola dell’obbligo: mentre i dottori di ricerca si estasiavano davanti a Paolo Bonolis, signore fermatesi alla terza media giravano la minestra o cucivano l’orlo ai pantaloni o recitavano il rosario, con ciò tenendo vive conoscenze apprese e quindi facendo cultura, loro sì, e senza sovvenzioni.
Jean Clair, una delle menti migliori della Francia contemporanea, un sincero reazionario quindi, ha approfondito l’intuizione manniana nel suo ”La crisi dei musei” dove parla appunto del ”declino che va dal culto alla cultura e dalla cultura al culturale”. Già, ad esempio: come mai il ministero dei Beni Culturali non si chiama ministero della Cultura? Nella prolissità si nasconde sempre una magagna. ”La cultura è una qualità, un’identità, che unisce e che innalza. Il culturale disperde, sparpaglia, degrada, squalifica… La cultura, fedele alla sua origine, era il culto, la fondazione del tempio, la delimitazione di un luogo sacro”. Niente di sacro esiste per Baricco e poco di sacro esiste per Andrea Carandini, il presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, appunto. Carandini è l’archeologo-garagista che voleva sventrare il Pincio per metterci dentro un po’ di macchine e che adesso vuole esportare prestare monetizzare il contenuto dei musei italiani. Ovviamente costui arriva buon ultimo, in Francia la dissipazione simbolica dell’arte è storia vecchia, nata dall’idea chiracchiana e poi sarkozyana (fra i due personaggi c’è più continuità del previsto) di noleggiare pezzi di Louvre agli Emirati Arabi. Clair inorridisce alla prospettiva di esiliare per anni un certo numero di capolavori ad Abu Dhabi, in una situazione metà Las Vegas metà Monte dei Pegni (i soldi del petrolio lubrificano l’intera faccenda) e si domanda se l’idea di museo, figlia della Nazione, possa sopravvivere alla scomparsa di questa. Mi pare chiaro che senza soldi pubblici l’alta cultura non può sopravvivere e non sopravviverà. Prospererà il culturale, per il pascolo dei laureati, con gli assessorati, le mostre, i restauri, gli eventi, il premio Strega, gli articoli di Baricco, i convegni di Scurati, i corsi di scrittura, Benigni & Bonolis, Daria Bignardi, Fabio Fazio, i festival di filosofia, i programmi per ginnasiali benpensanti di Neri Marcorè, ma ancora più arido, ancora più contingente e inessenziale di oggi. Bene, benissimo. Sarà ancora più evidente che il vero, il buono, il nobile, il generoso si conservano e si tramandano solo nel culto, sarà ancora più attuale la frase agostiniana della ”Città di Dio”: ”La nostra religione, in cui è la vera cultura.”