Camillo Langone, Manifesto della destra divina, Difendi, conserva, prega! Vallecchi 2009, 13 gennaio 2010
ABRUZZO VERSUS PATAGONIA
Il Signore disse a Giacobbe: ”Torna al paese dei tuoi padri, nella tua patria e io sarò con te” (Genesi 24, 4)
C’è molto vento in Patagonia. Anche in Abruzzo c’è molto vento, lassù sul Piano delle Cinque Miglia dove d’inverno si scatenano terribili bufere di neve, che oggi fanno paura e nel tempo antico facevano stragi (nel 1529 vi morirono di freddo seicento soldati tedeschi). Ci sono famosi ghiacciai in Patagonia. Proprio come in Abruzzo: il ghiacciaio del Calderone è il più meridionale d’Europa, per studiarlo salgono sul Gran Sasso geologi e glaciologi da tutto il mondo. Qualcuno si permette di snobbarlo considerandolo troppo piccolo, ma che piccolo e piccolo, è vasto più di quattro ettari ed è profondo venticinque metri, basta il distacco improvviso di un dieci per cento per fare bua abbastanza a chi si trovasse a passare da quelle parti. Ci sono interminati spazi in Patagonia, un po’ come sulla Maiella. E sovrumani silenzi, quando cala la tramontana: la notte a meno decibel della mia vita, unico rumore il pulsare del mio cuore, l’ho passata nelle antiche stanze del palazzo baronale dei Cataldi Madonna, a Ofena, paese ormai quasi disabitato (gli abruzzesi di montagna sono semiestinti, esattamente come gli indios Patagoni scoperti da Magellano).
Daniele Del Giudice, calviniano esangue, un tizio capace di vincere tre premi-ectoplasma come il Viareggio, il Bagutta, il Feltrinelli-Accademia dei Lincei, uno scrittore molto anni Ottanta e quindi non molto necessario (non è solo colpa sua, ha esordito all’epoca in cui si pensava che Gesualdo Bufalino e Pietro Citati fossero autori importanti), dopo anni di benedetto esilio nel 2009 è tornato nel mondo, o meglio nel demi-monde del premio Strega, con un libro ambientato fra pampe e pinguini, frigidità antartiche e malinconie dell’Argentina estrema. E’ solo l’ultimo di una lunga serie di patagonici onorari. ”Un vecchio alberghetto a Parigi senza telefono è esattamente la condizione che tutti i cattivi scrittori sognano” diceva Ennio Flaiano, credo negli anni Sessanta. Dopo la morte del pungente pescarese la meta cambiò e ad attrarre grafomani a corto di ispirazione non fu più l’abusatissima Ville Lumière ma la vergine o presunta tale Patagonia. Il primo della serie fu Bruce Chatwin, inglese di incerte abitudini e incompreso (da me) talento di cui lessi ”Che ci faccio qui?”, il cui titolo segnalava comunque una qualche consapevolezza. Lo sbolognai a un’amica, meritava solo per la grafica Adelphi e la foto leggendaria in copertina, con gli scarponi appesi al collo, una foto che avrebbe reso immortale chiunque. Dopo Chatwin si aprirono le cateratte e la regione venne invasa dai turisti del sublime: Paul Theroux, Claudio Magris, Luis Sepulveda, Erri De Luca, Jovanotti… Un altro ipnotizzato dal Sudamerica terminale è Adriano Sofri, ogni tanto ne fa cenno, pare che per sprofondare nel sogno della regione e nel sonno della ragione gli basti rivedere nel ricordo ”nei pressi di Calafate, scivolare sul lago i cigni dal collo nero”. Io i primi cigni neri li vidi da bambino nel laghetto del Parco Ducale di Parma e non mi fecero nessun effetto romantico anzi, li percepii immediatamente come grosse bestie cattive dal becco pericoloso, violenti e prepotenti nei confronti degli altri abitanti dello specchio d’acqua e non del tutto inoffensivi nemmeno con gli umani. Uccellacci stalinisti come i maiali della Fattoria degli Animali. Non sapevo ancora nulla di Orwell, probabilmente a quell’età non sapevo ancora nulla di nessun autore, ma non ci vuole la scienza per comprendere i messaggi della realtà. Basta davvero poco, basta non essere obnubilati dall’ideologia turistico-ambientalistica per sentire la crudeltà della fauna e dei paesaggi. Sofri in quelle plaghe vorrebbe addirittura concludere i suoi giorni: ”Ho comprato i volumi dei Meridiani sui poeti della scuola siciliana e li ho messi da parte per il giorno in cui, a fine pena, se ci arrivo, andrò a vivere, cioè a morire, nella Terra del Fuoco”. Io sono una persona semplice, se stravedessi (ma non stravedo) per Federico II e Jacopo da Lentini mi piacerebbe leggerli al Capo di Milazzo gustandomi granite di limone, non sulle Ande: l’imperatore svevo era appassionato di falchi, non di condor. Forse a spiegare Sofri non serve questa frase di Augusto Del Noce, ”l’amore del lontano nasconde l’odio del prossimo o piuttosto l’indifferenza al suo riguardo”, ma solo una diagnosi oculistica: colpito anche lui, pur così altezzoso, dalla presbiopia di massa che porta gli italofoni ad ammirare i luoghi in misura proporzionale alla loro distanza da casa. Certo, la Terra del Fuoco non è da tutti, non è Sharm el Sheik, è la vacanza di chi si crede intelligente (il turista da Mar Rosso non si crede nulla, la presunzione almeno ce la risparmia). La vacanza-studio, la vacanza-ispirazione, alla ricerca delle sorgenti della Metafora. Con l’ipotesi vagamente romantica e in realtà molto meccanica che la creazione artistica possa essere spinta in alto dalle onde, smentita dal livello paludoso delle canzoni di Vecchioni e Jovanotti scritte o ambientate sull’Oceano e dai brividi sempre garantiti a ogni riascolto da ”Il mare d’inverno”, concepita da Enrico Ruggeri sull’Adriatico tiepido e tranquillo. Del Giudice scarseggia anche di fantasia geografica: non solo scrive di Patagonia, abita a Roma e a Venezia, e non si possono immaginare due città più consumate dal continuo ciabattare narrativo. Perché non si trasferisce a Pescara? Certo, nonostante il raffreddamento globale, nel mare nostrum i pinguini ancora non si sono visti. E allora vada a Pescocostanzo, millequattrocento metri sul mare, uno dei borghi più belli d’Italia, con accesso alla montagna segreta dove al posto dei condor volano le aquile reali, sopra nevai e cascate di ghiaccio e sentieri mai calpestati dalla motocicletta del giovane Che Guevara, vuoi mettere.