Ugo Tramballi, Il Sole-24 Ore 12/1/2010;, 12 gennaio 2010
UN ALTRO MURO A DIFESA DI ISRAELE
Qualche mese fa Scott Tobin, general partner di Battery Ventures, aveva lasciato Boston per Tel Aviv con una ferma convinzione: «La prossima grande idea verrà da Israele». L?idea che si aspettava non è probabilmente la decisione presa ieri dal governo israeliano: una grande barriera per fermare stavolta i migranti, non i terroristi,lungo l’unica frontiera senza reticolati d’Israele.
Il confine è quello con l’Egitto, 266 chilometri di deserto dalla Striscia di Gaza a Eilat sul Mar Rosso. Circa 66 chilometri di reticolato partiranno da nord, 66 da sud. Negli altri 134 il deserto è così inospitale per l’uomo,che non occorrono barriere: sensori e radar rileveranno ogni eventuale movimento. Costo dell’opera,completata in due anni, 270 milioni di dollari. «Volevamo diventare Atene. Una volta per tutte diventeremo la nuova Sparta», commenta il giornale Yedioth Ahronoth.
Israele ha un doppio reticolato lungo la frontiera libanese a Nord, uno uguale sul Golan con la Siria e nella valle del Giordano a Est, con la Giordania. Gaza è una gabbia e poi c’è la cosi detta "barriera di separazione", mura di cemento e filo spinato lungo 510 degli 810 chilometri di ipotetica frontiera fra colonie ebraiche e i palestinesi di Cisgiordania. «Alla fine non ci sarà scelta se non chiudere lo stato d’Israele in una barriera da ogni suo lato»,ammette Bibi Netanyahu, il premier.
Diversamente dalle altre, la nuova progettata ha poco a che vedere con la sicurezza d’Israele ma con il problema comune all’Occidente.«Siamo il solo paese del primo mondo dove la gente può venire a piedi dal terzo mondo e dall’Africa». Il Darfur, il Sudan e l’Africa orientale sono troppo distanti per lasciarle a piedi, ma l’immagine offerta da Netanyahu è di effetto. Una volta erano i palestinesi la manodopera a buon mercato della crescita economica israeliana nell’edilizia e nell’agricoltura: erano arrivati a 140mila i permessi giornalieri. Gli operai arrivavano all’alba e se ne andavano la sera. Poi è scoppiata l’Intifada e i palestinesi sono stati sostituiti da romeni e thailandesi. Ma da allora l’economia è cresciuta e gli israeliani sono diventati più ricchi. «Israele rappresenta il più grande concentramento d’innovazione e imprenditorialità nel mondo», sostiene "StartUp Nation", l’ultimo libro sul miracolo economico israeliano (A Council of Foreign Relations Book, New York, novembre 2009). Delle ultime 3.850 start-up nel mondo, 1.844 sono israeliane.
Oggi gli immigrati sono quasi 300mila e quasi 200mila sono gli illegali: Romania, Ghana, Nigeria, Filippine, Ucraina, Russia, soprattutto; anche se i nuovi che passano dal deserto egiziano vengono dall’Africa più vicina. Secondo la polizia di frontiera ogni settimana ne passano fra 1.000 e 2.000. I più vengono impiegati nell’edilizia e in agricoltura, come sempre; ma ora in modo crescente nei lavori domestici, come badanti di una società che invecchia mentre quella palestinese ringiovanisce. L’altro ieri il ministero degli Interni lamentava che troppe donne filippine cercano di sposare anziani israeliani per ottenere la cittadinanza.
Quella israeliana di costruire la nuova barriera fisica, dice ancora Netanyahu, «è una decisione strategica per garantire il carattere democratico ed ebraico dello stato d’Israele».Il problema dell’identità è comune a tutti i paesi con flussi migratori, ma qui c’è qualcosa di più. Qui i fondatori erano venuti per creare uno stato nel quale gli ebrei non avrebbero più subito persecuzioni, per loro dunque è impensabile un melting pot se non di religione ebraica: askenaziti, sefarditi, falascià d’Etiopia ma sempre ebrei. L’ebraicità dello stato d’Israele è dunque implicita, anche se la vocazione settaria sembra incompatibile con quella democratica. Fino ad ora erano i palestinesi a minacciarla con la demografia. Ora il pericolo è la globalizzazione: la stessa che tuttavia garantisce il miracolo economico israeliano.