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 2010  gennaio 12 Martedì calendario

Poltawska Wanda

• Lublino (Polonia) 2 novembre 1921 • «Karol Wojtyla la chiamava ”Dusia”, ”sorellina”, e la loro corrispondenza durata 55 anni è così fitta da ”riempire una valigia”. Una montagna di carte, in parte consegnate alle autorità ecclesiastiche per la beatificazione di Giovanni Paolo II, in parte pubblicate in Polonia in un contrastato libro [...] ma in massima parte custodite nell’appartamento di Wanda Poltawska affacciato sul Mercato di Cracovia, la più grande piazza medievale d’Europa. Lettere personalissime, arrivate con inflessibile regolarità: per posta o attraverso amici comuni di passaggio a Roma [...] in vita creava imbarazzi e malumori in Curia quella strettissima amica del Papa che, racconta Boniecki, talvolta stupiva per l’anticonformismo e l’informale familiarità con il Pontefice, come quando le capitava di partecipare in pantofole alle messe mattutine nella cappella privata dell’appartamento papale alla terza loggia del Palazzo Apostolico, si lasciava scorgere dalle finestre del Gemelli durante la convalescenza post-attentato e trascorreva le vacanze estive a Castel Gandolfo [...] Lo stesso cardinale Stanislaw Dziwisz, l’ombra di Karol per quattro decenni, era preoccupato dal grado di esposizione pubblica dell’antico sodalizio tra il futuro beato e Wanda Poltawska. [...]» (Giacomo Galeazzi, ”La Stampa” 31/5/2009) • «Per Wanda Poltawska sarà sempre il ”geniale” studente di teologia conosciuto dopo la guerra all’Università Jagellonica e ritrovato assistente dei futuri medici nella parrocchia di San Floriano. L’amica del cuore di Giovanni Paolo II, psichiatra infantile premiata in tutto il mondo per i suoi studi (a partire da quelli sui bimbi polacchi scampati ai campi di concentramento che giocavano a fucilare gli ebrei), conosce le ”resistenze” e le incomprensioni suscitate dallo sterminato epistolario custodito in casa sua [...] Non ama parlare con i giornalisti e ha cercato di tenersi sempre ”il più lontano possibile” dai mass media. [...] partigiana cattolica arrestata dalla Gestapo e reduce dal campo di concentramento di Ravensbrück (dove fu sottoposta a macabri esperimenti medici) fugge dalla sua Lublino per studiare psichiatria in una facoltà che ha come cappellano un sacerdote filosofo di un anno più grande. ”Ci siamo conosciuti nel 1950, ero tormentata, devastata. Noi cavie eravamo chiamati ”coniglietti’. Nel lager ho capito che l’uomo non è automaticamente immagine di Dio, anzi deve lavorare per essere tale. Volevo studiare la mente per capire come l’umanità può creare un simile orrore, lui divenne il mio confessore e mi aiutò ad uscire dall’atroce dolore del lager, grazie a lui smisi di sentirmi colpevole di essere ancora vita di fronte alle madri che avevano perso i figli - racconta -. Gli incubi del lager mi impedivano di dormire. Lui mi insegnò a rispondere alle domande che mi tormentavano dentro. Abbiamo condiviso interessi, momenti importanti, spiritualità e quell’amore per la natura che vivevamo nei campeggi di montagna della Polonia meridionale fino alle villeggiature nella gabbia dorata di Castel Gandolfo dopo l’elezione al soglio di Pietro. A Cracovia abbiamo lavorato insieme per salvare bambini dal regime comunista che favoriva l’aborto”. Nel lager, assieme ad altre settanta giovani polacche, su ordine diretto di Himmler, venne usata come cavia per gli esperimenti del dottor Karl Gebhardt, poi processato e impiccato a Norimberga. La descrizione del primo incontro ricorda quella di un colpo di fulmine. ”Dal primo istante che l’ho visto sapevo che sarebbe diventato santo - spiega -. La sua santità era evidente, irradiava luce interiore, era impossibile da nascondere. Ho una valigia piena di sue lettere, non posso dire quante ne ho date alla causa di beatificazione, io non ne ho distrutta nessuna, ho selezionato alcune e le ho pubblicate in Polonia anche se c’era chi non era d’accordo. Ho riportato pure le sottolineature di suo pugno con cui metteva in evidenza le cose più importanti. Già cinquant’anni fa mia madre era sicura che sarebbe diventato Papa”. La questione di quanto dell’immenso epistolario resta fuori dal processo di canonizzazione è ”sensibile”, si schermisce. ”Non si può dire quanto ho dato al postulatore Slawomir Oder, ho giurato di non parlare di questo, non posso dire quanta parte del carteggio ho consegnato”, afferma la donna per la cui guarigione da un tumore nel 1962 il vescovo Wojtyla implorò il ”venerabile Padre Pio affinché Dio mostri misericordia a lei”. Wanda inspiegabilmente guarì e la lettera di Wojtyla finì tra le carte che hanno reso santo Padre Pio. Quando nel ”78 partì da Cracovia per il conclave con Dusia si dissero che ”se eletto il suo nome sarebbe stato Giovanni Paolo II». Poi appena uscito Papa dalla Cappella Sistina si affretta scriverle una sterminata, accorata lettera di quattro pagine. La loro ininterrotta corrispondenza non ha precedenti nella storia dei pontificati. Lei, il marito Andrzej, anch’egli medico, i figli, diventati la famiglia di Karol. ”Ha perso molto presto i genitori e il fratello Edmondo, aveva solo lontani parenti ma ripeteva che trovarsi senza amici era un peccato. La sua giovialità conquistava, era di una generosità d’animo travolgente. entrato in casa mia da giovane prete, baciava la mano a mia madre, anche io ero molto giovane. La sua vocazione come forma di amore. Santo per carattere, geniale come intelletto - prosegua Wanda Poltawska -. La sua filosofia mi ha aiutato nella vita privata e nel lavoro di scavo psicologico nella la personalità umana. La sua missione era santificare l’amore. Abbiamo scritto insieme, ragionato insieme su come salvare l’amore umano tra uomo e donna. Lui è già santo prima che avvenga la proclamazione”. Appena si sente domandare cosa le manchi più dell’amico di una vita, quale abitudine quotidiana, quale consuetudine radicata nel loro rapporto, un bagliore attraversa il suo sguardo. Prima lo abbassa come commossa, poi rialza fiera gli occhi puntandoli di fronte a sé. ” una domanda troppo personale, è la mia vita privata, chiederlo è poco delicato come un elefante in una cristalleria - dice di un fiato -. Quando gli hanno sparato a piazza San Pietro sono partita dopo poche ore e gli sono stata accanto finché non è tornato in forze. Gli leggevo romanzi e libri di storia polacca. Dell’ultimo anno di vita, più di metà l’ho trascorso a Roma”. E anche il 2 aprile 2005, nella sua stanza in cui è morto Vaticano, Karol aveva accanto la sua ”carissima Dusia”» (’La Stampa” 31/5/2009).