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 2010  gennaio 11 Lunedì calendario

Tobino, lo scrittore che amava la follia e rifiutava Basaglia L’utopia del «manicomio affettuoso» I l Piazzone d’erba di Viareggio in cui il bambino Mario Tobino giocava con gli amici era un ricordo ben presente alla mente dello scrittore ottantenne

Tobino, lo scrittore che amava la follia e rifiutava Basaglia L’utopia del «manicomio affettuoso» I l Piazzone d’erba di Viareggio in cui il bambino Mario Tobino giocava con gli amici era un ricordo ben presente alla mente dello scrittore ottantenne. il maggio 1990, infatti, quando Tobino, intervistato da Gianni Delli Ponti per la Televisione della Svizzera Italiana, torna a quegli anni dell’infanzia in cui si incontrava con la «teppa del Piazzone» (lui figlio di farmacista, gli altri per lo più figli di marinai) per divertirsi, dirsi parolacce, picchiarsi. E proprio a quei tempi spensierati trascorsi con gli amici, Ganzù l’elegantone, Truppino con la pancetta, Fortunato Celli detto Natino, lo scrittore-psichiatra fa risalire il primo interesse per la mente umana: «Mi ricordo di loro in ogni particolare. Si vede che già allora avevo una certa disposizione a stare attento ai moti dell’animo altrui. Niente di speciale, ognuno ha la sua sensibilità, la sua disposizione». Niente di speciale, certo, ma Tobino aggiunge che qualche anno dopo, al tempo dell’università, su un treno verso Pisa, gli capitò un fatto a suo modo significativo. Mentre si trova seduto con i compagni sul fondo del vagone, il giovane Mario nota «uno con il viso immobile»: «Chissà cosa mi succedette – racconta ”, ma al mio vicino dissi: "Quello lì sta per fare qualcosa". E lui: "Ma che ti piglia?". Io mi smemorai per un momento, ma dopo quattro, cinque minuti improvvisamente quel tale, un uomo tarchiato, duro, con gli occhi immobili, si alzò, rapì la maniglia dell’allarme e tirò giù facendo partire un gran fischio, sicché il treno si fermò». I primi contatti con il manicomio risalgono agli anni di Ancona, tra inizio ”39 e primavera ”40. L’ospedale era una possibilità per vivere e fare lo scrittore: «Vitto, alloggio e un piccolo stipendio». Lì imparò il «mestieraccio»: «Stando dentro l’Ospedale si frequentano ovviamente i matti, i malati di mente, la psichiatria, le sorprese, gli impulsi, i deliri, la diversità dei deliri. Un delirio di persecuzione uno lo vive in un modo, l’altro in un altro modo. E poi c’è la personalità». La personalità di Tobino è straordinaria: racconta che nel giro di poco tempo si imbarcherà per la Libia e ne tornerà invalido («ho 190.000 lire al mese, se avete bisogno di soldi…», scherza). Fatti noti, lo sbarco a Tripoli dalla nave «Duilio» e il disorientamento dei soldati. Dunque, il ritorno a Viareggio, «completamente sbalordito» e dal 9 luglio ”42 l’assunzione all’Ospedale di Maggiano, in provincia di Lucca, come medico assistente interno. Diventerà primario e lavorerà (anzi vivrà) lì per oltre quarant’anni e imparerà a leggere nella follia nient’altro che «una segreta legge del Signore», «una sorte», persino «una benedizione». Ora che le sue vecchie stanze, grazie alla Fondazione Tobino, nel centenario della nascita vengono restaurate e se ne annuncia per la primavera prossima l’apertura al pubblico, vale la pena risentire, grazie alla suggestiva e succosa intervista di Delli Ponti, come si viveva in quei locali: da malati e da medici. Tobino racconta precisi casi clinici, i pericoli corsi e il ceffone di gelosia preso da una matta che riteneva di essere la sua amante. Il miracolo di qualche guarigione insperata. Il delirio di grandezza di un ragazzo che si credeva «senatore». A proposito della scelta di vivere in manicomio: «Mi avevano dato la mia stanzetta, c’era la mensa… e poi mi rimanevano diverse ore al giorno per la letteratura, il mio piccolo segreto». Tobino ricorda la sua giornata, a cominciare dalla passeggiata mattutina sotto gli archi del convento antico e dai colloqui con i pazienti ricoverati di notte (le famiglie preferivano evitare lo «scandalo» di giorno). L’ospedale psichiatrico prima degli psicofarmaci: «Con i malati violenti succedeva che c’era un infermiere a destra e uno a sinistra che gli avvolgevano le braccia con dei lenzuoli». Il beneficio ambiguo delle pasticche che impedivano a una signora di volare felice tra gli alberi da un ramo all’altro. La terapia di un medico famoso che per «guarire» imalati usava conficcar loro «un ago dentro il cervello, passando dall’occhio». L’ospedale luogo d’infamia e di tortura? Senza edulcorare niente, Tobino racconta anche le atrocità: «Un giorno un’ammalata si conficcò un ferro da calza nel petto, al cuore», colpa di un’infermiera disattenta: «A quel punto si trattava di levarglielo». Ci provarono ugualmente: «Rimase viva. Ah, che bellezza!». Tobino denuncerà l’infermiera disattenta al Consiglio di disciplina. Lo psichiatra-scrittore sta dalla parte dei manicomi «affettuosi» e avversa con tutte le sue forze la legge 180 del «liberi tutti»: «Quanti ne sono morti! Per esempio, i malinconici amavano la morte e si uccidevano (…). E poi, le famiglie quanto hanno sofferto! Quando un malato veniva dimesso, rimandato a casa, mica stava solo. Aveva intorno bambini, vecchi che dovevano vivere in casa con lui. Non era mica facile». Atroce il caso di una professoressa che ogni tanto veniva presa da periodi di malinconia. «Un giorno’ era già in vigore la 180 – bussò al reparto, ma trovò chiuso (...). Successe che quella donna si allontanò e senza essere vista si sdraiò in un boschetto appena fuori dal manicomio, così, per terra. A poco a poco smise di parlare, divenne autistica». Dopo due o tre giorni fu trovata da un cacciatore «sdraiata per terra al freddo, morta, con i topi che le stavano mangiando i piedi. Ecco cosa succedeva con la 180». Si sentì solo quando attaccò pubblicamente la Legge Basaglia? «Mah, oggi forse direbbero di no, ma allora... è che tutti mi guardavano un po’ così, ma non osavano affrontarmi. Io avevo fatto la guerra, e poi il partigiano, e però alla fine passavo per retrogrado, un reazionario». Paolo di Stefano, Corriere della Sera 11/1/2010 Tobino: serve l’amore per non impazzire. Non essendo un intellettuale ma un medico, Mario Tobino ebbe l’immenso privilegio di vivere la letteratura non come un lavoro ma come un vero piacere (e non essendo un «umanista per mestiere», come gli concesse Gianfranco Contini, poté mantenere un che di «primitivo» nella scrittura). Fu anche per questo che non si immischiò mai, altra squisita rarità, in correnti letterarie e di partito. Non ne aveva tempo, né voglia. La vita la dedicò a due sole cose: i suoi matti, per i quali ebbe lo stesso rispetto che riservò alle storie raccontate nei sui libri; e la scrittura, che curò sempre con la stessa attenzione che dedicava ai suoi pazienti. Ebbe la dote innata di riuscire a leggere in punta di piedi i misteri della mente umana, e il talento assoluto di raccontarlo sulla pagina scritta. Uno scienziato del racconto. Scriveva quello che sapeva, e sapeva quello che scriveva. «Vivere l’esistenza e raccontarla testimoniandola, ecco la sua missione», ha detto di lui uno che lo conobbe bene, Vincenzo Pardini, altro scrittore arcigno e essenziale. Mario Tobino compirebbe cent’anni in questi giorni. E ricordarlo è cosa necessaria. Famoso e molto letto fino a tutti gli anni Ottanta (morì nel 1991), è un autore da qualche tempo in ribasso, nonostante il Meridiano Mondadori con le Opere scelte del 2007. Si è parlato molto, e si continua a parlare anche oggi, della sua avversione alla famosa-famigerata «legge 180», la legge Basaglia che nel 1978 iniziò a smantellare i manicomi. Tobino la contestò, anche duramente, sia in pubblico che in privato. Lui che con i malati di mente ci conviveva - «Dopo numerosi anni che frequento la pazzia mi sembrò di conoscerla, di poterla umanamente dire», spiegava raccontando il motivo che lo spinse a scrivere Le libere donne di Magliano, del ”53 - e sapeva i rischi che avrebbero corso una volta lasciati ”liberi”: Tobino non voleva un carcere-manicomio, voleva un ambiente protetto per chi, strappato all’unico mondo conosciuto, avrebbe sfogato contro altri o contro se stesso le proprie paure, le paranoie, la violenza. I benpensanti progressisti, miopi, lo esposero alla gogna mediatica. Il tempo gli ha dato più di una ragione. Ma non è (soltanto) questo il motivo per ricordare Mario Tobino. Oltre il medico c’è il narratore. E allora si possono leggere, o rileggere, soprattutto le sue storie di mare - Gelosia del marinaio del 1942 o il bellissimo Angelo del Liponard del ”51 - e le «storie» dei folli, fino a Gli ultimi giorni di Magliano. E poi, al di là di tutto, rimane l’uomo. Sul carattere e i sentimenti del quale aggiungono qualcosa alcune lettere inedite che in occasione del centenario delle celebrazioni (che dureranno tra mostre e convegni per tutto il 2010), la «Fondazione Mario Tobino» sta mettendo a disposizione degli studiosi. Tra le tante, una - tenera, poetica, dal finale impertinente - è stata concessa al Giornale dalla nipote, Isabella Tobino. indirizzata al grande amore dello scrittore: Paola Levi, sorella di Natalia Levi Ginzburg e moglie dell’industriale Adriano Olivetti. il 1944, Viareggio è sotto i bombardamenti e dev’essere sfollata. Tobino e Paola - in quel momento sposata a Olivetti - si amano già da due anni. Lei rimarrà vedova nel 1960, e da allora dividerà la vita con lo scrittore. Il quale, pur non sposandosi mai, fece di Paola il perno sentimentale dell’esistenza. Da lei ebbe consigli e aiuti per «affrontare» il mondo letterario, da lei ebbe l’appoggio nella carriera di medico e di scrittore, da lei ebbe la stabilità affettiva che un uomo abituato a dividersi tra «matti» e «racconti» ha inevitabilmente bisogno. Paola fu - come ricorda la nipote Isabella - la sua musa ispiratrice, «non nella poesia ma nelle sue scelte di vita: lui era sanguigno e impetuoso, lei serena e tranquilla. Gli dava sicurezza». Una donna - come le scrive Mario in quel difficile 1944 - «dove poggiare al testa». Luigi Mascheroni, il Giornale 13/1/2010