Valerio Rosa, LཿUnità 11/1/2010, 11 gennaio 2010
LUIGI SERAFINI: «SALVATECI DALLA TIRANNIA DEL MERCATO DELL’ARTE»
Pittore e designer di fama mondiale, Luigi Serafini ha esordito 30 anni fa con il Codex Seraphinianus, un mondo immaginario disegnato a matita in cui tutto risulta indecifrabile: le misteriose creature che lo popolano, le regole che lo governano, la grafia che lo descrive. La testimonianza di un altro universo, che incuriosisce, seduce e inquieta, inafferrabilecomeil monolito di Kubrick. Italo Calvino la definì «l’enciclopedia di un visionario». Un visionario che non appartiene ad alcuna scuola, non segue mode, non si può etichettare. Lo omaggiano, nella rete, siti e blog in tutte le lingue del mondo. La Bur lo ha coinvolto nelle celebrazioni per il sessantennale, commissionandogli un libro d’arte per illustrare un’opera a scelta tra le tante del suo infinito catalogo. Perché ha scelto Renard? «Più che una scelta è una casualità. Siccome da bambino mi ero appassionato alla natura, mi regalarono questo libro che mi sono sempre portato dietro come un talismano, senza averlo mai aperto. Leggendolo mi ha colpito lo sguardo impressionista, quasi cromatico, caratteristico dello spirito dell’epoca. Se Pel di Carota era una storia vagamente lacrimevole, tipica di quei romanzi di formazione sempre troppo tristi per i nostri gusti, le Storie Naturali sorprendono per l’osservazione libera della natura e per la capacità umoristica di giocare su diversi registri. Si passa dalla costruzione fantasiosa di metafore a descrizioni quasi scientifiche». Qual è stato allora il suo approccio a Renard? «Ho affiancato alle sue parole un controcanto botanico. Tutte le storie che racconta sono ambientate in un mondo vegetale. L’idea di un erbario mi è sembrata perfetta per rappresentare la natura giocando tra fogli e foglie. Dal meta-libro che è stato il Codex sono così passato al metà- libro, che è un po’ di Renard. e un po’ mio. E poi mi ha affascinato l’idea di un lavoro in cui l’editoria ritrova la sua ragion d’essere attraverso l’impegno di tante persone, che discutono e collaborano in un’antica attività artigianale, perché la realizzazione di questo volume è stata tecnicamente complessa». Che genere di libro ne è venuto fuori? «Non è la solita raccolta di illustrazioni, ma un’opera d’arte che testimoni la visione del mondo e il gusto estetico dell’artista, un one man show esposto direttamente al giudizio del pubblico. Una mostra tascabile, portatile e itinerante, perché anzichè stare in una galleria è dentro un libro». Anche il Codex è un libro-mostra. «Infatti è figlio di un’epoca, gli anni ”70, in cui la comunicazione è diventata centrale, sia a livello fisico sia a livello tecnologico.Unarivolta dei figli contro i padri, che facendosi la guerra, avevano negato ogni forma di dialogo. Il Codex nasce dall’esigenza di mettere in rete, far vedere, esternare. L’artista, del resto, soffre di un deficit di comunicazione che riequilibra mostrando le sue opere: non riuscendo a parlare, deve usare un altro mezzo per farsi sentire. In quel periodo col libro si accedeva all’unica rete disponibile, quella editoriale. La possibilità di esprimersi è diventata una strategia, perché metteva al riparo dalla tirannia del sistema dell’arte, creando uno spazio di libertà». Perché parla di tirannia? «Qui bisogna fare un passo indietro. Fino alla seconda guerra mondiale il riferimento è Parigi. Il mercato esiste, ma gli artisti ne sono emancipati, l’opinione di un artista conta più di quella di un critico. Quando nel dopoguerra il sistema dell’arte si sposta a NewYork, i mercanti traghettano l’arte moderna negli Usa, dove nonè ancora conosciuta. Così il sistema dell’arte incontra il sistema di produzione americano, il sistema fordista della catena di montaggio che genera il prodotto di massa e in cui l’artista è soltanto uno degli elementi, come il gallerista e il collezionista. L’artista smette di avere voce, perché in questo sistema la distribuzione delle competenze dà la parola al critico, che interagisce col museo e il collezionista per creare l’evento, ossia l’opera. Un critico- pubblicitario che si esprime attraverso slogan, battute, provocazioni». Qual è la conseguenza di tutto ciò? «La gente preferisce andare al cinema, perché in una sala ritrova la propria capacità di emozione e di giudizio che le viene sottratta nelle Biennali e nelle gallerie. Si va al cinema per il passaparola, che è il sistema più antico di promozione. questo il rapporto che deve esserci tra artista e pubblico. Se l’artista deve generare emozioni, deve trasferirle al pubblico, perché il lavoro che fa sulla sua sofferenza deve suscitare una réaction poétique. Come il cinema e la gastronomia, si ha una reazione immediata. Di fronte all’opera d’arte, invece, non capisci se ti piace o no, aspetti che qualcuno te la spieghi. Solo che il critico, a causa della sua formazione pseudo-scientifica, cerca di descrivere l’opera d’arte incasellandola entro ”ismi, ossia formule che nulla hanno a che vedere con la fruizione dell’opera. Lo scrittore, invece, lavora in modo da guardare la realtà attraverso sé stesso e il suo umore: per questo può parlare dell’arte in un modo che aiuti a comprenderla. Alcuni critici, inoltre, sono artisti mancati e tendono a sovrapporsi agli artisti che commentano. Gli scrittori non hanno questo problema». La recensione di un critico può avere conseguenze sulla valutazione di un’opera? «Certamente. Può alzarne il prezzo oltre il proprio reale valore. Quest’arte ipervalutata viene proposta addirittura come forma di investimento. Nel sistema dell’arte, in particolare nelle aste, si commettono reati economici che altrove sarebbero perseguibili e non c’è nessuna authority che controlli. Il paradosso è che un graffitaro può costare più di un Tiziano». Che cosa dovremmo fare allora? Abolire i critici? «Ci vorrebbe una moratoria, come per la pena di morte e l’emissione di gas nocivi. Mai più critici professionisti. Di arte dovrebbero parlare giornalisti e scrittori, purché abbiano scritto almeno dieci romanzi».
Valerio Rosa, L’Unità 11/1/2010