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 2010  gennaio 08 Venerdì calendario

BENIAMINO PLACIDO

Ricordiamo Beniamino Placido per motivi affettivi, ma anche perché – per chi troppo giovane ne ha scarso ricordo – è stato una figura di intellettuale e ”comunicatore” italiano importante ed esemplare. Negli anni settanta, ancora anni caldi e intensissimi, Beniamino Placido collaborava assiduamente con la casa editrice Samonà e Savelli, che era di fatto la casa editrice principale del «movimento», e fu così che entrò in contatto con la rivista «Ombre rosse» e vi collaborò (memorabile una sua lettura del film Il cacciatore, controcorrente rispetto alle idee e alle prevenzioni dei militanti), come anche la sua compagna Nadia Fusini, ottima studiosa di letteratura statunitense e femminile, e anche, più tardi, con esiti diversi, romanziera. Due persone ammirevoli per cultura, sensibilità, entusiasmo, generosità. Beniamino veniva dal paese di Giustino Fortunato, aveva un forte accento pugliese e uno spiccatissimo senso dello humour, più europeo che italiano, affettuoso ma anche, a volte, tagliente. Di mestiere faceva il segretario di commissione in Parlamento, e di conseguenza non poteva insegnare all’Università. Questo era un suo grande cruccio, perché la sua prima passione era in realtà la letteratura americana (con forte attenzione alla letteratura in genere, alla cultura in genere, e portando anzi un particolare interesse ai dibattiti sulla critica: per un certo tempo si parlava di lui, tra gli amici, come di un nostro Edmund Wilson, e non era un elogio da poco, nel mezzo delle povere diatribe paramarxiste e strutturaliste dei nostri accademici. Se si studiasse la storia della Samonà e Savelli – dove passò il meglio e l’ovvio e talora anche il meno buono della nuova sinistra – si poterebbe avere un quadro molto significativo dei grandi e dei piccoli dilemmi degli anni settanta. Le riunioni della Samonà e Savelli erano faticose ma ricche di idee e di proposte, non tutte poi realizzate. Le amministrava saggiamente, con Dino Audino e Vincenzo Innocenti, un giovanissimo di grandi speranze che decise di togliersi la vita molto, troppo presto, Maurizio Flores, e che scriveva di letteratura sia sul «Manifesto» che su «Lotta continua », un fatto poco abituale; un altro giovane di grande talento, scomparso anche lui troppo presto, Marco Lombardo-Radice, autore con Lidia Ravera del best-seller della casa, Porci con le ali, vi portava idee innovative sulle controculture giovanili, ma viste da qui, dal concreto dei problemi dei ragazzi italiani che conosceva tramite il suo lavoro di psichiatra. A queste riunioni prendevano parte, in spirito di collaborazione e non di spartizione, anche personalità diverse e di idee più pesanti, come i cosiddetti «collettiani» e altri dottrinari. Con Beniamino e con altri del gruppo (e in altri modi con Nicola Gallerano, brillantissimo storico della società e della politica italiane del dopoguerra che aprì la strada a molti altri, anche lui scomparso troppo presto) consideravamo di decisiva importanza preoccuparci della formazione dei giovani del movimento, cercando i modi per strapparli a certa stupidità fideistica e settaria dei gruppi. Bisognava, pur parlando il loro linguaggio, allargargli le idee, proporgli strumenti conoscitivi adeguati. Una di queste idee fu quella di una collana, «Il contesto», che avrebbe dovuto riproporre i testi dei dibattiti fondamentali di un passato non troppo passato che avevano attraversato la cultura italiana, e non solo italiana. Si cominciò, se ben ricordo, con un volume sulle culture popolari, di taglio antropologico, un confronto che vedeva al suo centro le posizioni di Ernesto De Martino, e si voleva proseguire con il dibattito sull’articolo 7 della Costituzione (quello del Concordato tra Stato e Chiesa), i cui atti erano stati raccolti e commentati a suo tempo da Aldo Capitini, eccetera. Non ricordo quanti furono i volumi che uscirono, forse solo due, forse tre, perché con Beniamino ci si scontrò su alcune proposte e si verificò la nostra distanza. Poiché gli argomenti che lui proponeva mi sembrarono troppo «borghesi», proposi a lui e alla casa editrice che la collana continuasse, anche con la mia collaborazione ma con la sola sua firma. Lui se la prese moltissimo, non me la perdonò mai, e da allora ci si incontrò raramente. Nel frattempo, o subito dopo, mentre usciva da Einaudi Le due schiavitù, un bellissimo saggio su Benito Cereno di Melville e su La capanna dello zio Tom, egli venne «scoperto », grazie a Enzo Golino, da Eugenio Scalfari, ed entrò a far parte dei collaboratori più assidui e più letti della «Repubblica». L’abbraccio scalfariano non è mai senza effetti, Placido ne derivò la possibilità di cambiar lavoro e la grande fama, accresciuta più tardi dalla televisione. Divenne un intellettuale di punta, nel cuore del nuovo «sistema» dell’informazione, molto amato perché intelligente, colto, spiritoso, affabile, cortese, di bellissima penna, naturalmente simpatico: in qualche modo un borghese vero, per di più con inflessioni dialettali che ne affermavano una comunanza popolare, un borghese che sapeva parlare con i piccolo borghesi che la scuola stava portando, malamente e senza profondità, ai gradi superiori dell’istruzione. La sua vocazione pedagogica si affermava in un contesto molto diverso da quello del movimento, molto più vasto e per lui gratificante, quello dei tanti, con aspirazione al tutti. Per ammaestrare bisogna piacere, e questo gli riusciva molto facile, anche troppo. Molto più che ai tanti che in qualche modo provarono a imitarlo, da Baricco a Fazio. Questa facilità, però, anche se certamente gli piaceva molto piacere, non diventò mai in lui compiacenza, e se accettava e rispettava le idee di tutti, anche le più riduttive, però sapeva come, senza infierire, costringerle al confronto con idee migliori. L’ordine in cui si muoveva era per lui naturalmente, diciamo pure secondo le sue radici di classe, quello dell’accettazione, di una presunta saggia accettazione, del mondo com’è e come diventava, ed era da questo che emergevano le differenze. La scelta di quella strada – la convinzione di dover parlare a tutti con gli strumenti mediatici correnti – era estremamente rischiosa e Placido ne pagò lo scotto. Ma la sua forza, prima che la malattia lo allontanasse dai suoi due podi prediletti della «Repubblica» e della televisione, era di credere in tutta sincerità alla possibilità di aiutare a capire, di convincere, di insegnare ponendo se stesso, senza forzature, come esempio di arte del dialogo. La sua grande cultura, le sue origini nel gruppo de «Il mondo», il suo amore per la migliore America liberal ma anche per quella radical lo salvarono dalle cadute tremende di molti suoi amici, propagandisti non di una idea di democrazia ma del Capitale, e dell’americanismo mediatico come avanguardia del Capitale nel nostro paese.