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 2010  gennaio 07 Giovedì calendario

I troppi suicidi della giovane India Nuova Delhi. Se è vero che analfabetismo e povertà vanno a braccetto, allora s’intuisce quanto l’istruzione possa apparire importante in un Paese dove quasi il 50 per cento della popolazione non sa ancora né leggere né scrivere

I troppi suicidi della giovane India Nuova Delhi. Se è vero che analfabetismo e povertà vanno a braccetto, allora s’intuisce quanto l’istruzione possa apparire importante in un Paese dove quasi il 50 per cento della popolazione non sa ancora né leggere né scrivere. L’istruzione assorbe le aspettative di un’intera famiglia, diventa il costoso volano di una carriera. Tanto più se in questo Paese si stanno affacciando impieghi in multinazionali d’ogni calibro, se le televisioni stanno arrivando impetuosamente nelle case con i loro simulacri posticci di perfezione e felicità.  l’India che cresce, aspira al decoro e d’improvviso si sveglia sotto shock per via dei suoi stessi contraccolpi. Così si può spiegare quanto successo a Mumbai: tre teenager suicidi in quarantotto ore. Tre giovani vite che se ne sono andate senza mai incrociarsi ma che erano accomunate da un andamento scolastico poco smagliante. Sono l’ultimo segnale di quello che in India sembra un fenomeno in crescita: ammazzarsi da adolescenti. Non che fosse un Paese immune dal fenomeno dei suicidi. Anzi, in termini assoluti il Subcontinente, insieme a Cina e Giappone, ospita il 40 per cento delle morti auto-inflitte del pianeta. Centinaia di contadini qui si ammazzano ogni anno perché il raccolto è stato vanificato da una siccità. Ci si ammazza persino di fronte alla morte di qualche politico. Come è successo l’autunno scorso quando, di fronte al fatale incidente del governatore dell’Andra Pradesh, una novantina di suoi sostenitori ha preferito ingurgitare veleno piuttosto che continuare una vita senza il loro amato rappresentante. E certo se per un indiano su tre l’esistenza è appesa a un salario quotidiano da meno di un dollaro, quando per milioni basta una diarrea per morire, si capisce che il valore attribuito alla vita da queste parti può essere assai infimo. In più, c’è l’ipotesi della reincarnazione che aiuta, forse, anche a deprezzare l’esistenza. Il suicidio non è ben visto dall’induismo. condannato alla stregua delle altre religioni. Per gli indù ogni vita è dono sacro, miracolosa creazione divina da apprezzare e sfruttare al meglio, come lo è per cristiani, ebrei o musulmani. Secondo le scritture induiste, chi vi rinuncia diventa un fantasma condannato a vagare fino al momento in cui la morte sarebbe arrivata se non avesse commesso il fatale gesto. Ma per chi, come molti, divoratore di testi sacri e ortodosso non è, la contemplazione del bis, del tris e via dicendo conforta. Certo ci sono da espiare le colpe passate, ma si può tentare di rifarsi una vita, di alleggerirsi il karma riuscendo dove prima si era fallito. Credere nella reincarnazione, insomma, può forse dare il coraggio di farla finita col presente. Eppure, per quanto l’India sia proverbialmente intrisa di religiosità, quando si hanno undici, dodici o diciotto anni, come i tre ragazzi di Mumbai, difficilmente è alla trasmigrazione dell’anima che si pensa. Piuttosto al più terreno assillo di essere come gli altri, se non meglio. Soprattutto di essere all’altezza delle aspettative. Di genitori sempre più esigenti, di una società che si fa più competitiva. L’istruzione in India ha da sempre rappresentato la via maestra per uscire dalla povertà. Ma oggi, con la crescente concorrenza sia nell’accesso alle università che sul mercato del lavoro, le pressioni sui figli stanno diventando insostenibili per più di qualcuno di loro. il contraccolpo dell’espandersi del benessere tra gli indiani, le vecchie generazioni che proiettano sulle nuove ciò che loro non hanno avuto. Secondo uno studio della rivista Lancet sui tre casi di suicidi commessi ogni quindici minuti in India, uno riguarda una persona tra i 15 e i 29 anni. E non è un caso se le cronache sui suicidi giovanili aumentano in concomitanza di esami e scrutini. per vergogna, quindi, che sempre più spesso ci si ammazza da giovani. Senso di inadeguatezza. Come quello che opprimeva Sushant Patil, dodicenne appena bocciato a quattro test su sei. «Devo raggiungere i miei obiettivi ottenendo dei buoni voti», ha lasciato detto. E poi s’è impiccato nel bagno di scuola.