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 2010  gennaio 08 Venerdì calendario

ERRORI

2 Articoli ERRORI IN CORSIA Errori in corsia, medici divisi sulla diagnosi Corsi infiniti e preparazione approssimativa: gli ospedalieri attaccano I presidi: accuse qualunquistiche I chirurghi: i veri problemi da chi non sa gestire Medici preparati male dalle università, che durante la specializzazione fanno poca pratica e dopo non vengono aggiornati. Dietro gli errori che provocano casi di malasanità al sud, ma non solo, potrebbe esserci anche l´incapacità delle facoltà di Medicina di mandare nelle corsie buoni professionisti. il drammatico dubbio che sta attraversando in queste ore il mondo dei camici bianchi. Non solo sprechi economici, cattiva gestione e nomine lottizzate, dunque. Ad avanzare l´accusa contro un pezzo fondamentale della sanità non sono associazioni dei malati o vittime di errori esasperate dal dolore ma altri dottori, quelli ospedalieri. «La formazione è scadente, lo diciamo da tempo. Le scuole di specializzazione molto spesso danno un bagaglio tecnico approssimativo a chi si è appena laureato ma allo stesso tempo i corsi sono di una lunghezza senza eguali al mondo. Così i medici perdono tempo e si demoralizzano. Si specializzano a 32 anni e fanno i precari fino ai 40». A parlare è Carlo Lusenti, segretario dell´Anaao, il sindacato più importante degli ospedalieri. «Al sud queste storture sono amplificate dallo stato del sistema sanitario - prosegue - Alcune Regioni soffrono di una qualità amministrativa scandalosamente bassa, di una sanità che costa tantissimo ma non funziona. Sono treni senza guida. Chi entra in un ospedale di scarso livello, magari calabrese o siciliano, demotivato perché è già un uomo di mezza età nemmeno tanto preparato, rischia di lavorare male. Magari si rifugia nella medicina difensiva». E il rischio di sbagliare aumenta. Lusenti chiede di riflettere su questi problemi senza esasperazioni: «Teniamo sempre conto che la scienza medica non è esatta e ci sono eventi che non è in grado di evitare. Può essere pericoloso accomunare fatti diversi sotto la generica definizione di malasanità. Si rischia di dimenticare i milioni di atti medici che ogni giorno vanno a buon fine». In Italia ci sono 41 facoltà di Medicina, alcune, fanno notare sempre dall´Anaao, in piccole provincie come Isernia, Chieti e l´Aquila. Napoli ne ha 2, Roma addirittura 5. «In Svezia l´unica facoltà è a Stoccolma - ironizzano dal sindacato - il famoso Karolinska institute serve 8 milioni di persone». Le scuole di specializzazione sono 1780, tra queste c´è medicina termale ma non (ancora per poco) la medicina d´urgenza. «La metà dei direttori di queste scuole ha solo uno studente», attaccano dall´Anaao. Gli specializzandi sono circa 5mila. «Purtroppo in molte scuole non si fa tutta la pratica prevista dalle normative - dice Carmelo Coppolino, dell´Asmed Sicilia, una delle associazioni dei medici che fanno il tirocinio - Ad esempio per i radiologi sono previste un certo numero di ecografie e tac all´anno. Difficilmente si riesce ad esercitarsi con quel numero di esami». A difendere il sistema universitario è il rettore della Sapienza Luigi Frati, già preside di Medicina. E lo fa attaccando: «Noi i medici li prepariamo bene. il servizio sanitario nazionale a distruggere quanto abbiamo insegnato. Chi si specializza in Italia quando va all´estero fa sempre una bella figura. Gli ospedalieri sono disinformati, del resto i loro primari sono scelti dalla politica». Frati riconosce un problema, le scuole di specializzazione per i chirurghi. « vero che molto spesso quei giovani professionisti non riescono a fare tutti gli interventi previsti per il loro periodo di tirocinio. Ma vedo che gli ultimi casi di malasanità riguardano solo discipline mediche». Chi entra in sala operatoria conosce bene il problema delle specializzazioni. «Spesso nelle facoltà salta il sistema di tutoraggio - spiega Rodolfo Vincenti, presidente dell´Associazione chirurghi ospedalieri italiani (Acoi) - Le Università non ci formano bene e soprattutto non si occupano di aggiornamento quando i medici entrano in modo strutturato negli ospedali. Nel nostro lavoro è fondamentale continuare a studiare e questo lo facciamo solo grazie al sistema sanitario o a noi stessi, non ai professori. Detto questo, i gravi problemi del sud nascono soprattutto da gestioni sbagliate. Bisogna diffondere nelle corsie la cultura dei controlli e del rispetto delle procedure, per raggiungere questo scopo abbiamo fatto un progetto con Cittadinanzattiva». Punta molto sulla prevenzione dei rischio Riccardo Cassi della Cimo, il secondo sindacato degli ospedalieri: «Vanno analizzati gli errori per costruire un sistema di protezione. Al sud questa operazione è più difficile». Anche il preside della facoltà di Medicina di Bari, Antonio Quaranta, difende l´Università. « qualunquistico dire che i problemi della sanità al sud dipendono dalla formazione. Del resto l´organizzazione degli ospedali è in mano ai direttori generali, scelti dalle Regioni. Certo, abbiamo due sistemi che vivono un momento di crisi, quello universitario e quello sanitario pubblico. Dobbiamo migliorare i rapporti tra questi due mondi per alzare la qualità dell´assistenza». In certi casi, però, più che di dialogo bisognerebbe parlare di allontanamento. di pochi giorni fa una lettera spedita al ministro Gelmini dal rappresentante Anaao di Catanzaro, Fernando Roccia, in cui si denuncia la decisione dell´Università di far svolgere alcuni corsi di specializzazione presso un privato. «Si tratta di una struttura non accreditata con il servizio sanitario, la Fondazione Tommaso Campanella - spiega il dottore - Ebbene, vorrei sapere che valore avranno i diplomi conferiti in futuro in quell´ospedale. Si parla di specialità importanti come pneumologia, oncologia, chirurgia plastica, otorino, neurochirurgia. In quelle scuole non si fanno corsi teorici, e i volumi di prestazioni sono inadeguati, come gli indici di qualità. E poi gli studenti non avranno nemmeno il tutor». Numeri 29.500 richieste danni Sono arrivate a quasi 30mila l’anno. Dal 1996 al 2007, secondo le assicurazioni, sono aumentate del 73% 500 mln Costo polizze La cifra viene spesa in un anno dalle Regioni per assicurare ospedali e medici contro gli errori 31% Casi risarciti Per meno di un terzo delle denunce di danno arriva il risarcimento, in media di 25mila euro 53% Sale operatorie Oltre la metà delle segnalazioni a Cittadinanzattiva riguardano danni in sala operatoria 77-88 Età dei deceduti Nel 32% dei casi gli errori mortali colpiscono persone molto anziane, nell’11% minorenni 17,5% Rischio ortopedia  la specialità con più segnalazioni di errori a Cittadinanzattiva. Oncologia segue col 13,9% delle denunce, ginecologia col 7,7% Michele Bocci, La Repubblica 8/1/2010 L’invasione dei batteri: così si muore in corsia ROMA «No al Garante per la Salute» Nella gestione della Sanità italiana è necessario un salto di qualità, perché il rigore dei bilanci delle aziende sanitarie non può mettere in discussione le garanzie del diritto alla salute da parte. Dopo gli ultimi episodi di malasanità il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari, Leoluca Orlando, alza la voce, richiamando manager e amministratori. Ma su un punto sembrano tutti d’accordo, politici e medici: l’istituzione di un Garante della Salute, che verifichi la qualità delle cure e dei servizi, proposta dall’esponente del Pd, Ignazio Marino, non è necessaria. «Il garante che cosa può garantire?«, sottolinea l’oncologo Umberto Veronesi, secondo il quale ci vuole invece un buon sistema: «Bisogna rifare gli ospedali, rinnovarli e usare molta tecnologia». Per l’ex ministro, inoltre, si sta esagerando: «I dati che abbiamo dimostrano che quella italiana è una delle migliori del mondo. Ed episodi spiacevoli accadono in tutti i Paesi». Ma Marino insiste e sottolinea che l’authority da lui immaginata si ispira a un modello consolidato in Usa e Inghilterra: prevede una struttura tecnica, che verifichi tecnologie e professionalità in un luogo di cura prima di attivarlo. Ma contrari al Garante si dichiarano anche i rappresentanti del Pdl, come il presidente della commissione Affari sociali della Camera, Giuseppe Palumbo.Un problema che risale alla notte dei tempi, ai primi ospedali. Ma, in controtendenza con quella che dovrebbe essere l’evoluzione della medicina, le infezioni ospedaliere - che l’altro giorno hanno ucciso due neonati a Foggia - sembrano impossibile da azzerare. Ne dà la dimensione uno studio dell’Università di Firenze, con una serie di numeri che fanno accapponare la pelle, se si pensa che ci si riferisce a strutture a cui i pazienti si affidano per ritrovare la salute. Su 9 milioni e mezzo di ricoveri, in un anno, si registrano 450-700 mila infezioni, che si manifestano a 48 ore dall’ingresso nei reparti, oppure durante la degenza o, ancora, dopo le dimissioni. Il costo più alto è in vite perdute: settemila morti all’anno. Quello in euro, 400-500 milioni. Per qualcosa che, nel 30% dei casi, si potrebbe evitare. Risparmiando, così, 1350-2100 morti in 12 mesi e 135-210 mila infezioni, tra i letti di corsia e di sala operatoria. Eppure, da anni ci si riempie la bocca con la parola «prevenzione». «Ai tempi di Manzoni nessun benestante voleva finire nel lazzaretto: la morte per infezione era quasi certa», cita il virologo Fabrizio Pregliasco. Oggi va decisamente meglio, ma non abbastanza. Perché? Le ragioni sono due: l’aumento delle pratiche diagnostiche e terapeutiche sempre più invasive e la crescita della popolazione cosiddetta fragile, costituita da anziani e malati cronici. «Oggi, comunque – osserva il virologo - si parla soprattutto di infezioni correlate all’assistenza. Riguardano il 5-10% dei pazienti in ospedale, il 5% dei lungodegenti in strutture apposite e l’1% di quelli assistiti a domicilio». La possibilità di vivere dei soggetti più fragili si scontra con il maggiore rischio di contrarre infezioni. «Basti pensare – spiega Pregliasco – che nelle terapie intensive neonatali il 17% dei neonati sviluppa infezioni gravi a 48 ore dal ricovero». Ci sono infezioni endogene (già presenti all’interno dell’individuo e che possono trasmettersi ad altri) ed esogene (legate a microrganismi che arrivano dall’ambiente esterno). Ma anche l’uso scorretto di farmaci, in particolare antibiotici, ha fatto negli anni la sua parte. A causa di queste cattive abitudini, per esempio, in ambito europeo, il nostro Paese è in testa per infezioni da stafilococco aureo meticillino resistente. I siti più a rischio sono le sale operatorie, le rianimazioni, le sale gessi, i laboratori analisi. Le infezioni più comuni colpiscono il tratto urinario (si pensi al catetere), riguardano le ferite chirurgiche e l’apparato respiratorio. Ma quanto conta l’igiene messo in atto (o non) dal personale? Moltissimo, concorda il virologo. Le mani sono il primo veicolo per gli agenti patogeni. Ma, attenzione. «Più un ambiente è asettico – avverte - maggiormente corre il rischio di essere aggredito». Un paradosso? Niente affatto. Su ogni superficie stazionano colonie di batteri innocui, impedendo ad altri di «colonizzare». Facendo piazza pulita di tutto, lo spazio diventa aggredibile, per cui non si può più abbassare la guardia e occorre mantenere sempre altissimo il livello di pulizia. Non bisogna, poi, esagerare neppure con il continuo ricorso a certi rimedi, liquidi o in gel, per la pulizia delle mani: si rischia di alterare la pellicola idrolipidica-protettiva della cute, favorendo l’infezione. In ogni ospedale, per una disposizione dell’85, dev’essere operativo un Cio (comitato infezioni ospedaliere). Quanto funzioni dipende da struttura a struttura e dai fondi che vengono assegnati alla prevenzione, dalle apparecchiature alla formazione del personale. «Gli strumenti ci sono per far decrescere il problema, ma non arrivano al letto dei pazienti», accusa Teresa Petrangolini, segretario di Cittadinanzattiva-Tribunale del malato. La prevenzione non rientra nelle priorità. «Basterebbe legarla a certi iter di carriera – suggerisce - o agli incentivi per il personale. Ma non si fa. E il motivo è semplice: i pazienti contano troppo poco, altrimenti verrebbero prima di carriere e appalti». In certi ospedali americani i medici hanno scritto sul camice: «Remember me to wash my hands». Ma ricordare di lavarsi le mani fa parte di un rigore che dovrebbe intervenire più profondamente su chi governa il nostro sistema sanitario. Le infezioni ospedaliere 9.500.00 Il numero dei ricoveri in un anno 450-700mila Le infezione ospedaliere ogni anno 5-7mila Il numero dei decessi ogni anno 30% (135-210mila/anno) I decessi prevenibili 30% (1.350-2.100/anno) Le infezioni ospedaliere prevenibii Daniela Daniele, La Stampa 8/1/2010 Ammalarsi in ospedale: 700mila casi, 2100 fatali ROMA - Hanno nomi spesso difficilmente pronunciabili, tanto che sono gli stessi medici ad abbreviarli con delle sigle. Eppure batteri, miceti e altri agenti patogeni proliferano nelle corsie degli ospedali dove entrano in contatto con i farmaci, diventano resistenti e si trasformano in veri e propri killer. Non è un problema che riguarda solo l’Italia, ma diffuso in tutto il mondo; le stime elaborate dall’Istituto superiore di sanità (Iss) indicano cifre impressionanti: circa 700.000 mila infezioni ogni anno che, per fortuna solo in pochi casi - circa 2100 – hanno esiti fatali. Sono questi i numeri italiani delle infezioni ospedaliere. Quelle che potrebbero aver causato il decesso dei due neonati di Foggia. «Il nostro paese – spiega Annalisa Pantosti, ricercatrice dell’Iss – non è tra quelli che sono messi meglio in Europa anche se negli ultimi anni ci sono stati numerosi progressi in questo settore». Un segnale particolarmente positivo viene da un particolare tipo di infezione ospedaliera che gli epidemiologi usano come una specie di cartina al tornasole per capire cosa succede nelle corsie. E’ l’infezione causata dal batterio Streptococcus aureus resistente agli antibiotici, conosciuto a livello mondiale con la sigla Mrsa. «Negli ultimi due anni abbiamo assistito per la prima volta a una inversione di tendenza. Dopo trenta anni di continua crescita di questo particolare tipo di infezioni – dice Pantosti – abbiamo registrato un calo netto. Ora la percentuale di infezioni ospedaliere dovuto a questo tipo di patogeno è passato dal 40 per cento a circa il 34 per cento. Poca cosa, ma certo è un segnale positivo. Ma va aggiunto che negli ultimi anni sta aumentando la percentuale di altri batteri infettivi sempre resistenti ai farmaci». Come positivi sono pure i segnali che arrivano dagli ospedali che cominciano ad essere sempre più sensibili al tema delle infezioni ospedaliere. «Se nel 2004 solo il 14 per cento degli ospedali italiani aveva attivato un servizio di sorveglianza attivo contro queste infezioni, ora la percentuale è salita a più del settanta per cento» spiega ancora la ricercatrice dell’Iss. Ma non basta. Perché i batteri sono elusivi e si nascondono in mille anfratti. Basta un medico che esce per prendere il caffè al bar, o un infermiere che non getta i guanti per portare un’infezione da un paziente all’altro. Un anello molto sensibile della catena dei controlli è quello delle operazioni. Le ferite post operatorie possono infatti essere quelle più sensibili a far proliferare i batteri killer. Per questo esiste uno specifico programma di controllo sui pazienti sottoposti ad intervento chirurgico che ha come obiettivo quello di prevenire l’insorgenza di infezioni. Eppure non tutte le Regioni sono impegnate nello stesso modo. Anche se stavolta le regioni del Sud fanno meglio e più di quelle del Nord. Ad esempio la Campania riesce a seguire l’otto per cento dei pazienti operati, mentre la Lombardia appena l’un per cento del totale. «Le infezioni ospedaliere – spiega Antonio Cassone, dirigente di ricerca dell’Iss – possono e debbono essere controllate. Bisogna che ogni ospedale faccia la sua parte». Emanuele Perugini, Il Messaggero 8/1/2010