Carlo Grande, La Stampa 8/1/2010, 8 gennaio 2010
La vera storia del rigore più lungo del mondo Un contadino strangola un gatto e un cantastorie, che passa di lì, crea il mito di Ercole in lotta con l’Idra
La vera storia del rigore più lungo del mondo Un contadino strangola un gatto e un cantastorie, che passa di lì, crea il mito di Ercole in lotta con l’Idra. A volte è la genesi delle opere d’arte, quando scaturiscono dalla forza dell’immaginazione, della memoria, della malinconia, che proiettano ombre più grandi e potenti del reale. Accadde a Osvaldo Soriano (succede a tutti i bravi scrittori) in uno dei suoi racconti più celebri, Il rigore più lungo del mondo, pubblicato nel ”95 in Italia da Einaudi nella raccolta Pensare con i piedi (meglio il titolo originale: Cuentos de los años felices). Per molti il leggendario Penál è il più bel racconto mai scritto sul calcio. Narra di una miseranda squadra della Patagonia - l’Estrella Polar - che contende il titolo, l’ultima giornata di campionato, al glorioso Deportivo Belgrano. Negli ultimi minuti l’Estrella, che gioca fuori casa, conduce per 2 a 1 ma l’arbitro - tal Herminio Silva, un epilettico che vende i biglietti della lotteria nel circolo locale e che fino ad allora ha conservato il rispetto di sé - decide di pensare al suo lavoro e di fischiare un rigore inesistente per i padroni di casa. Rissa, invasione, spari in aria, partita sospesa. Appuntamento la domenica successiva, cancelli chiusi e solo venti secondi per battere il rigore, che verrà parato. «Così - scrive Soriano - quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia». Una storia d’altri tempi, epica e romantica come alcune vicende del calcio narrate dall’uruguagio Eduardo Galeano, dal nostro Giovanni Arpino - che di Soriano fu amico ”, da Peter Handke, Gianni Brera, Pasolini, Cancogni o dagli umorali e minimalisti (ma sfegatati) Nick Hornby e Roddy Doyle. Il rigore di Soriano, però, è diventato un cult. Ne ha parlato il critico Franco Cordelli, che ebbe la ventura di dividere la stanza con el Gordo (il grasso, com’era soprannominato lo scrittore) durante uno dei suoi numerosi soggiorni in Italia: già esule a Bruxelles e a Parigi dopo il golpe del ”76, Soriano scriveva per il celebre quotidiano argentino Página/12 e collaborava con il manifesto. Ne ha parlato il giornalista valsusino Ugo Splendore, che arrivato nel «posto sperduto di Valle de Rio Negro» ha scoperto lo que pasó veramente. Il rigore, dice, non fu battuto una domenica pomeriggio nel 1958, come scrisse Soriano, ma nel 1953 o al massimo nel 1954; lo stadio non era «tutto esaurito» perché il campo non aveva tribune ma una semplice staccionata. E soprattutto alla fine non vinsero i più deboli dell’Estrella Polar, ma i più blasonati avversari. Accadde a Cipolletti, vicino a Neuquén, terra di vini, petrolio, frutta e resti di dinosauri: è la città dove il Gordo, nato a Mar del Plata nel 1943 e morto precocemente nel 1997, si trasferì con il padre a tre anni. Soriano stesso ne parla in Rosebud, bellissimo racconto dedicato al potere della memoria. All’epoca dei fatti Soriano (che interruppe la carriera perché si ruppe un ginocchio) aveva 14 anni e giocava centravanti nel Confluencia, piccolo club di quartiere, ormai scomparso. il club Cipolletti che ispirò l’Estrella Polar: giocò in casa una partita decisiva contro l’Union Allen Progresista, squadrone della vicina città di Allen. Splendore ha visto lo stadio (undicimila posti), i vicini campi da tennis dov’era il vecchio campo e ascoltato due testimoni, Carlos Alberto Segovia, notaio di 72 anni, e Pepe Santos, di 67 anni, amico d’infanzia di Soriano. Segovia ricorda quello che ricordano in molti: Soriano era un bel nottambulo, chiamava gli amici e li teneva al telefono per ore anche da Parigi per sapere cosa aveva fatto la squadra del cuore, il San Lorenzo de Almagro. Pepe trascorse l’infanzia con Soriano, di cui era quasi coetaneo: «Si faceva raccontare tutto e ascoltava: era come se leggesse e vedesse. Non scriveva. Per non prenderle dalla madre si arrampicava sul pero davanti a casa. Giocava male a pallone: aveva le gambe storte e una bella castagna, niente più. Però aveva una mente superiore, era un pensatore». A lui, tra l’altro, è intitolata la nazionale di calcio degli scrittori italiani, fondata da Alessandro Baricco e Paolo Verri, la «Osvaldo Soriano Football Club» (www.nazionalescrittori.it). La partita di Cipolletti fu interrotta sullo 0-0 a 20 minuti dalla fine, quando l’arbitro decretò un rigore per i padroni di casa e venne aggredito dagli ospiti, con invasione di campo. Fu ripresa una settimana dopo a porte chiuse, per battere il rigore e giocare altri venti minuti: il portiere dell’Union parò il penalty, poi il Cipolletti cercò invano il gol che gli avrebbe dato la vittoria del campionato. Ecco come andò. E i giocatori dell’Estrella, «lenti e pesanti come armadi»? E il Gato Diaz, l’indio araucano portiere dell’Estrella la cui testa, pettinata con la brillantina, prima di parare il rigore «risplendeva come una pentola di alluminio»? Soriano disse di averlo conosciuto, ma quello «vero» dell’Union, si chiamava Benjamin, era alto e magro e non era innamorato della rubia Ferreira, come el Gato. Soriano sapeva che la realtà non sempre è bella come un racconto: per questo ci sono i libri, per questo lui diventò un raffinato «incantador», un narratore di sogni. E sapeva che quello che conta nella narrativa non è tanto il vero ma quello che ricordiamo. «Ci fu un tempo in cui le foto fissavano un istante della nostra felicità - scrive in Rosebud -. Poi i nastri del videoregistratore hanno moltiplicato la banalità. Eppure le guardiamo con nostalgia, come se potessero rivelarci un segreto che ci aiuti a sopportare la parte di viaggio che ancora resta da fare». Pazienza, riguarderemo, riproveremo, falliremo meglio. Come lo splendido «fallimento» narrato dal Gordo a Eduardo Galeano, riportato nell’ultimo libro dello scrittore uruguagio appena ristampato in Sudamerica: El Fútbol a sol y sombra (Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer). Il brano Fervor de la camiseta (Passione per la maglia) racconta di un tifoso del Boca Juniors che passò la vita odiando il River Plate. In punto di morte chiese di essere avvolto nella bandiera nemica. Così, con un vertiginoso gioco delle parti, con l’ultimo fiato che aveva poté dire: «Muere uno de ellos».