Laura Anello, La Stampa 8/1/2010, 8 gennaio 2010
LA CASA DEL BOSS SCONFITTO
Cinisi (Palermo) Una scala di legno massiccio e di onice, con il passamano tirato a lucido, le finiture dorate, gli intarsi e le venature. Se cento passi, nel corso principale di Cinisi, separano la casa di don Tano Badalamenti da quella di Peppino Impastato, i trenta gradini di questa scala sono il simbolo del potere del boss sul suo feudo. «Mi ricordo quando la vidi per la prima volta - racconta Giovanni Impastato, 57 anni, fratello di Peppino - mi ci portò mio padre, rimasi a bocca aperta». Sono i suoi occhi a condurre dentro la casa del boss, la palazzina di corso Umberto 183 sulla quale è appena arrivata la confisca definitiva da parte della Corte di Cassazione. Il sancta sanctorum di «Tano Seduto, sindaco di Mafiopoli» - così lo chiamava Peppino dalle frequenze di Radio Aut - andrà proprio all’associazione antimafia Impastato, intitolata al giovane militante di Democrazia proletaria che il boss fece uccidere il 9 maggio 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Delitto travestito, in quegli anni caldi, da incidente nel corso di un attentato e poi da suicidio, simulazioni ribaltate da una verità processuale arrivata ventiquattro anni dopo, nel 2002.
Ed eccoci qui, quindi, davanti al portoncino della casa dove don Tano tornò dopo l’arresto e l’assoluzione per insufficienza di prove nel 1974, accolto con abbracci e baci da mezzo paese. «Ma ci viveva già negli Anni Sessanta - racconta Giovanni, lo so con sicurezza. E sa perché? Perché quando fu ucciso mio zio, il boss Cesare Manzella, notai che la macchina esplosa era una Giulietta identica per modello e colore a quella di Badalamenti, parcheggiata sempre qui». Delitto da manuale, con la vettura a ostacolare il passaggio di Manzella, che andava in campagna. Lui ci salì sopra per spostarla, accese e saltò in aria.
Prospetto sobrio ma curato: un balcone in ferro battuto lungo tutto la facciata, due persiane in legno al primo piano. «Prima del processo - racconta Giovanni - la casa era più modesta, la ristrutturazione cominciò quando si aspettava la sentenza, e il ritorno in paese da vincitore fu segnato dal nuovo sfarzo». La scala ti appare appena varchi il portone, a troneggiare sull’immenso salone con i pavimenti di ceramica azzurra e rosa. «Ceramiche di pregio - racconta Impastato - che arrivavano da Sassuolo, dove c’era una fabbrica di cui Badalamenti era in parte proprietario». Al pian terreno anche la cucina e una terza stanza, sopra le camere da letto e due terrazzi. Tutto ricolmo un tempo di mobili antichi e tappeti di pregio, ormai portati via.
la mafia in presa diretta, quella raccontata da Giovanni Impastato, uno che è nato nel vortice delle contraddizioni: famiglia mafiosa, primi giochi con i figli di Badalamenti - Vito e Gaetano, oggi latitanti - fratello ribelle che cambia il corso della sua storia personale e di quella collettiva. «Non avevo il coraggio di Peppino - racconta - anche se condividevo le sue idee politiche. Gli rimproveravo i modi, dopo che mio padre venne ucciso e sentii che eravamo rimasti soli, senza più nessuno a difenderci».
Il padre ucciso? Le cronache raccontano che morì in un incidente stradale il 19 settembre 1977, otto mesi prima del figlio. «Era appena tornato dagli Stati Uniti, dove era andato a chiedere salvezza per Peppino. I boss di laggiù gli avevano detto che poteva stare tranquillo, che finché lui era in vita non gli sarebbe successo niente. Lui morì poco dopo, mio fratello l’anno successivo, coincidenza singolare». la prima volta che lo dice dopo anni di dubbi, sospetti, sussurri. Sembra di vederlo, il padrino, rientrare a casa la domenica, salutato a destra e a sinistra, nell’aria che profuma di sapone da barba e dolci di ricotta. vissuto qui fino al 1981, l’epoca in cui era il più grande importatore e distributore in Europa di eroina. Gli anni della Pizza Connection, il traffico di droga sventato dall’Fbi, la stagione della guerra di mafia, dei morti a decine. Il boss faceva affari, ordinava delitti e la moglie, Teresa Vitale, offriva il caffè nelle tazzine bordate d’oro. Nel 1986 il primo sequestro della palazzina, dove lei si è vista per l’ultima volta tre mesi fa. Ha aperto le finestre, ha dato aria alle stanze, ha chiuso ed è sparita a Castellammare del Golfo, trenta chilometri da qui.
«A Cinisi vivono ancora cugini e nipoti di Badalamenti - dice il sindaco Salvatore Palazzolo - gli anziani sono isolati, i giovani stanno nell’ombra, sentono che il clima in paese è cambiato». Nel 1984 il boss fu arrestato a Madrid. Tre anni dopo il tribunale americano gli inflisse 45 anni di carcere per riciclaggio. Nel 2002 la condanna all’ergastolo per il delitto Impastato, dove negò tutte le accuse, dicendo che mai avrebbe ucciso il figlio di un amico. «Tu fusti», tu sei stato, gli replicò Felicia Bartolotta, la madre-coraggio di Peppino. Nel 2004 morirono entrambi: lui in galera, lei stringendo al petto la fotografia del figlio.