Luigi Offeddu, Corriere della Sera 6/1/2010, 6 gennaio 2010
Risparmiatori beffati, l’ Islanda non paga i debiti con Londra Via al referendum e no ai rimborsi per il crac delle banche
Risparmiatori beffati, l’ Islanda non paga i debiti con Londra Via al referendum e no ai rimborsi per il crac delle banche. Protesta Gordon Brown Missione Ue ad Atene I tecnici di Bruxelles sono appena partiti per la Grecia per esaminare il piano di rientro del governo Papandreu La tutela dei depositi I governi britannico e olandese erano intervenuti a tutela dei connazionali con depositi presso Landsbanki DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES - Così parlò ai microfoni della Bbc Alistair Darling, cancelliere dello Scacchiere o ministro dell’ Economia del Regno Unito: «Incredibile ma vero, il governo islandese mi ha appena dichiarato che non ha alcuna intenzione di onorare i suoi debiti con la Gran Bretagna». Era l’ ottobre 2008, infuriava la crisi: e il governo islandese ribatté che no, non era così, che avrebbe pagato quanto doveva. Ma un anno e tre mesi dopo, cioè ieri mattina, le parole sbigottite di Darling hanno trovato conferma: il presidente islandese, Olafur Ragnar Grimsson, ha rifiutato di firmare la cosiddetta «legge Icesave» già approvata dal Parlamento, che avrebbe rimborsato da qui al 2024 i governi britannico e olandese coinvolti direttamente - per salvare i propri risparmiatori - nel tracollo della Landsbanki e di altre banche private dell’ isola. Il premier di Reykjavik ha così dato ascolto a una petizione, firmata da circa un quarto degli elettori, (61 mila abitanti su 320 mila) che gli chiedeva appunto di non firmare: «Ora la nazione ha il potere e il futuro nelle sue mani», ha dichiarato solennemente. E infatti, la decisione finale è stata affidata agli stessi elettori: fra circa un mese diranno con un referendum popolare che cosa debba fare il loro governo. Per vincere basterà la maggioranza semplice: ma già ora, i sondaggi dicono che il 70% della popolazione è d’ accordo con il presidente. Invece il primo ministro Johanna Sigurdardottir va controcorrente: «Il governo è pienamente impegnato - assicura - a saldare i debiti». Che in tutto, sfiorano i 4 miliardi di euro. «Siamo molto contrariati, e aspettiamo una rapida spiegazione», risponde il ministero delle Finanze olandese. E quello britannico: «Ci attendiamo che l’ Islanda tenga fede ai suoi obblighi. Al più presto possibile». Ad attendere è anche il Fondo monetario internazionale, che a novembre ha approvato per l’ Islanda un credito da 1,4 miliardi di euro: a condizione, però, che i debiti pregressi vengano sanati. Intanto, poco dopo il «no» annunciato da Reykjavik, l’ agenzia Fitch ha tagliato i rating di lungo termine dell’ Islanda sul debito estero e sulla valuta locale: rispettivamente da «BBB-» e «A-» a «BB+» e «BBB+»; sigillando poi entrambi con un plumbeo: «Le prospettive future sono negative». In due parole, secondo gli osservatori internazionali, crescono i rischi di insolvenza in questo Paese. E la stessa Fitch definisce l’ annuncio del referendum popolare come un evento foriero di «una nuova ondata di incertezza politica ed economica». Così, una brutta parola che sembrava fugata torna ad aleggiare sull’ isola più gelida e fascinosa d’ Europa: «default», appunto insolvenza, termine pericolosamente vicino a «fallimento». Nell’ Unione Europea, la Grecia è in difficoltà (gli esperti di Bruxelles volano ad Atene proprio in queste ore), la Lettonia altrettanto, e di questi e altri Paesi si è molto parlato nell’ anno appena trascorso. Ma quello di Reykjavik è un caso diverso, e non solo perché l’ Islanda ha chiesto appena in luglio di entrare nella Ue: è la prima volta, da quando la crisi economica ha investito il continente, che una sua nazione non onora i propri debiti. Fra il 2008 e il 2009 Londra aveva prestato a Reykjavik 2,5 miliardi di euro, e l’ Aia 1,3 miliardi, per coprire le voragini apertesi nella Landsbanki, nella sua branca internazionale Icesave (letteralmente: «Risparmio in ghiaccio», ma nei Paesi Bassi si presentava come «la banca trasparente») e in altri istituti con sede nell’ isola e diramazioni all’ estero. Naturalmente, Regno Unito e Olanda non avevano agito per spirito di beneficenza, ma per soccorrere i propri risparmiatori che a frotte si erano lasciati sedurre da investimenti apparentemente più lucrosi. Nel 2008, i conti e i depositi-titoli delle banche islandesi intestati a cittadini britannici e olandesi erano circa 320 mila. Reykjavik li ha «coperti» con garanzie statali e polizze assicurative. Ma per far questo, ha avuto appunto bisogno dell’ aiuto di Londra, e dell’ Aia. Quello stesso aiuto che ora molti elettori islandesi non vorrebbero restituire: il loro interesse si scontra direttamente con quello degli «altri», gli stranieri, e alla fine sarà il referendum a decidere tutto. In un questionario ufficiale pubblicato pochi mesi fa dal governo islandese, si legge: «Domanda: l’ Islanda è sull’ orlo della bancarotta? Risposta: no, l’ Islanda non sta andando in bancarotta». Ma in altri secoli, con quello che è successo ieri, forse alla foce del Tamigi o nel porto di Rotterdam avrebbero levato l’ ancora un paio di cannoniere.