Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 6/1/2010;, 6 gennaio 2010
LA BATTAGLIA DI NADIA PER IL SUO YEMEN
Nadia al Saqqah, 32 anni, è l’unica donna che dirige un quotidiano in Medio Oriente e forse in tutto il mondo arabo-musulmano: lo Yemen Times di Sanaa, capitale dello Yemen, il miglior giornale del paese, così autorevole e indipendente che il governo del presidente Alì Abdullah Saleh, per contrastarlo, ha fondato un concorrente, lo Yemen Observer.
Nadia riceve nella sede del giornale, non lontano dalle antiche mura di Sanaa, dalla fantasmagorica architettura di palazzi svettanti che sembrano galleggiare su un labirinto di vie e suq millenari. «Mi sono trovata a fare il mestiere di giornalista - racconta Nadia - per la morte improvvisa di mio padre, fondatore dello Yemen Times: in famiglia ero l’unica disponibile a raccoglierne l’eredità: mio fratello vive in Svezia e mia sorella in Italia, a Firenze. Mi sono improvvisata direttore e manager: prima mi interessavo d’altro, lavorando per l’agenzia umanitaria britannica Oxfam».
«La condizione della donna in Yemen - sottolinea Nadia Saqqah - non è certo la mia, borghese privilegiata, che ha studiato all’estero e ha vissuto in una famiglia assai liberale». E mi indica un’inchiesta del giornale sulle spose bambine: qui si celebrano migliaia di matrimoni con ragazzine di 10-12 anni, a volte anche meno.
«Famosa è diventata la storia di Nojoud, 9 anni, data in sposa l’anno scorso a un uomo di 33. Oggi lo Yemen - dice Nadia - interessa ovviamente per la guerriglia e il terrorismo internazionale, ma è anche importante sapere che in parlamento stanno cercando di approvare, nonostante l’opposizione di tradizionalisti e religiosi, una legge per fissare a 17 anni l’età minima del matrimonio».
Lo Yemen Times sta facendo da tempo campagna per una legge voluta, è onesto dirlo, proprio dal governo del presidente Saleh.
Sfogliando le notizie su alQaeda riportate dal giornale di Nadia, è però inevitabile parlare di un’altra violenza che percorre questo paese da nord a sud, della guerriglia sciita degli Huthi, del terrorismo, delle minacce di secessione, di un potere, quello del presidente Alì Abdullah Saleh, che sembra volere perpetuare a ogni costo la tradizione araba della repubbliche familiari ed "ereditarie", come la Siria degli Assad, la Libia di Gheddafi o l’Egitto di Mubarak.
«Non c’è dubbio che sia così - dice Nadia- se Saleh rimane al potere il suo successore sarà il figlio Ahmad, ora capo della guardia repubblicana. I figli, i fratelli e i nipoti del presidente guidano i principali organi della polizia segreta militare, gli apparati statali della lotta al terrorismo, i gangli delle forze armate e della burocrazia».
Un nipote di Saleh, Amar, dirige la sicurezza nazionale, un altro, Yahya, l’antiterrorismo, un terzo, Tarek, la guardia presidenziale, mentre il fratellastro del presidente comanda l’aviazione. Forse da questo si capisce perché negli anni ’80 e ’90 Saleh era così amico di Saddam Hussein, prima di abbandonarlo per allearsi con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita che, con un paio di miliardi di dollari l’anno di contributi, tiene in piedi le esangui finanze yemenite e si compra la fedeltà delle tribù di confine.
Lo Yemen è un’altra "Jumluka araba", un regno repubblicano. Jumluka è una fusione delle parole arabe "jumhuriyya" e "mamluka", rispettivamente repubblica e regno. «Saleh - continua Nadia - è sempre stato abile nel gioco del divide et impera, manovrando prima le tribù una contro l’altra, poi utilizzando gli estremisti islamici contro la guerriglia del nord o i separatisti del sud. Ma oggi qui alQaeda fa da tempo il suo gioco in proprio, non quello di Saleh. Ecco un esempio: Tariq al Fadhli, uno dei capi della Jihad, è stato alleato del presidente per 15 anni anni, adesso simpatizza per al-Qaeda e guida il movimento sepa-ratista del sud».
Ma a Nadia preme dire anche qualche cosa d’altro: «Gli yemeniti non amano più il loro paese: e come potrebbero? A milioni sono lasciati senza acqua, elettricità, istruzione. Si sentono abbandonati, quindi facili prede anche delle influenze esterne, da quelle dei vicini sauditi alla propaganda di al-Qaeda o degli Imam stranieri, dalle sirene iraniane che appoggiano la guerriglia Huthi alle fazioni somale. Si è fatto poi strada nella società, soprattutto tra i giovani, un senso di ribellione che coinvolge le famiglie, le tribù, i clan: anche le vecchie strutture di potere scricchiolano». Ma secondo Nadia lo Yemen non diventerà uno stato fallito: «Mi rifiuto quasi di pensarlo, anche se questa è avviata a diventare una nazione sempre meno sicura».