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 2010  gennaio 06 Mercoledì calendario

Nello Yemen, dove la piazza inneggia a Bin Laden - SANA’A – Durante le vacanze del Natale-Capodanno 1993 la famiglia di Khaled Shamia guadagnò quasi 15

Nello Yemen, dove la piazza inneggia a Bin Laden - SANA’A – Durante le vacanze del Natale-Capodanno 1993 la famiglia di Khaled Shamia guadagnò quasi 15.000 dollari vendendo manufatti dell’artigianato locale ai turisti stranieri. Nell’ultimo mese non sono arrivati neppure a racimolarne 100. «Forse basta questo dato per comprendere la nostra rabbia. Da quasi un ventennio il Paese non fa che regredire. Il governo è più corrotto che mai, preoccupato solo di restare in sella. E la popolazione diventa sempre più povera, si sente vittima di una situazione apparentemente fuori controllo. Non mi stupisce che possano crescere persino le simpatie per Al Qaeda», sostiene il 27enne proprietario della «Caravan», una delle catene di botteghe artigianali più famose nel cuore della città vecchia di Sana’a. Sorride ogni volta che sente parlare in italiano. A più riprese Khaled si è recato alla Fiera dell’artigianato di Milano. «Se avessi i soldi, chiuderei baracca e burattini e cercherei di emigrare in Italia. Invece sono costretto ad assistere alla nostra rovina, con la corrente elettrica a singhiozzo e i blocchi alla rete idrica persino qui, nel centro della capitale, e la paura del terrorismo. Tremo ogni volta che vedo passare un raro gruppo di stranieri. Negli ultimi anni sono stati colpiti anche nei nostri vicoli». Attorno è la città delle 18.000 torri in tutta la sua magnificenza. Il tramonto tinge gli edifici, antichi anche oltre 500 anni, di rosa struggente. Le botteghe sono strapiene di merce. Cesti di datteri e pistacchi sono circondati di tessuti, tappeti, cinturoni di cuoio finemente lavorato, legni pregiati, i classici coltellacci a mezzaluna, collane di ogni fattura, orecchini in metalli pregiati. Ma di turisti quasi neppure l’ombra. Se non uno sparuto gruppetto di italiani che si eclissa prima del buio.  lo specchio di una crisi profonda, radicale. «Il Paese è in ginocchio. La crescita di Al Qaeda nelle zone montuose del nord e del sud mi sembra sia solo l’ultimo dei problemi. Forse la punta dell’iceberg, che per una volta accende i riflettori della stampa occidentale. Ma la verità è che stiamo assistendo al fallimento del governo centrale. Una situazione simile a tanti Stati africani, addirittura paragonabile a Pakistan e forse Afghanistan», sostiene Nadia Abdulaziz Al-Sakkaf, 33enne figlia di una nota famiglia di intellettuali della capitale che dal 2005 dirige il quotidiano in lingua inglese Yemen Times. «Basta uscire da Sana’a per scoprire che Al Qaeda è più popolare che mai. I nostri reporter hanno addirittura assistito a imponenti manifestazioni di piazza contro il governo e in favore dei seguaci di Osama Bin Laden». Una delle più importanti, con migliaia di partecipanti, è avvenuta lo scorso 20 dicembre nella regione centro-meridionale di Al-Mahfad, e precisamente nel villaggio di Al-Ma’ ajana, dove l’esercito yemenita (sembra con l’assistenza logistica Usa) aveva distrutto un campo di addestramento della guerriglia qaedista. «I portavoce militari hanno sbandierato l’uccisione di una cinquantina di terroristi. Ma le nostre fonti ci parlano di 82 morti e 213 feriti civili. Questo spiega il risentimento popolare ”, aggiunge polemica, augurandosi che «il presidente Obama stia ben attento a evitare di compiere azioni di guerra destinate al fallimento, come in Afghanistan». Nadia non risparmia critiche al presidente, il 67enne Alì Abdullah Saleh. «E in carica da 32 anni. Ormai si impegna più a rafforzare la sua dinastia, per esempio lavorando per la successione del figlio Ahmed e distribuendo alti incarichi a nipoti e protetti, che non di governare». Un parere largamente condiviso tra i circoli diplomatici occidentali nella capitale. « vero che le elezioni del 2006 sono state relativamente corrette. Senza dubbio le più democratiche in questa regione di dittature. Ma il presidente è ormai uno dei fattori determinanti l’alto tasso di corruzione e l’incapacità di porvi rimedio», osservano. Molto difficile verificare le dichiarazioni dei portavoce. Ieri la notizia che dominava Sana’a era la riapertura dell’ambasciata americana, chiusa dopo l’allarme attentati diffuso domenica. In realtà le strade attorno all’ edificio sono bloccate al traffico e un fitto cordone di militari su blindati pattuglia il quartiere. Quelle francese e inglese si dicono invece formalmente aperte. Ma di fatto chiuse al pubblico. «Per ora noi funzioniamo regolarmente. Coordineremo le nostre mosse con i partner europei», sostiene l’ambasciatore italiano, Mario Boffo. Impossibile capire invece sono sorvegliati da forti contingenti dell’esercito. «Ma dei militari locali non ci fidiamo troppo. Utilizziamo aerei privati per raggiungere le zone di estrazione. Troppo pericoloso viaggiare via terra. E abbiamo chiesto la protezione di contractor occidentali pagati dalla nostra compagnia». Nel campus dell’università statale gli studenti sono ben contenti di parlare con uno straniero. Il clima è amichevole, disteso. Nessun controllo ai cancelli. Ma i discorsi sono di grande preoccupazione. «La parola araba che domina il nostro Paese è fasad, corruzione. Si paga per entrare in ospedale, per ottenere qualsiasi documento pubblico, addirittura mazzette alla polizia per evitare le multe e ai giudici per non essere processati», dice un gruppo di studenti all’ultimo anno della facoltà di Lingue. Nessuno di loro simpatizza per Al Qaeda. Al contrario. «I terroristi sono la nostra rovina. Siamo tutti ostaggi di Al Qaeda e il nostro governo non sembra davvero in grado di batterli. E l’Iran soffia sul fuoco», esclama uno di loro, il 23enne Morsan Al Sabri. Eppure la maggioranza si dice molto più intimorita dalla destabilizzazione nazionale, guarda con paura agli insorti delle tribù sciite degli Houthi nel nord, al permanere della minaccia della secessione tra Yemen meridionale e settentrionale. Cinque o sei di loro fanno a gara nel tracciare su di un’ingiallita mappa geografica appesa al muro i complicati confini degli antichi clan tribali dal golfo di Aden sino agli altopiani remoti che portano alla frontiera con l’Oman. «Una volta per voi stranieri erano curiosità esotiche. Ma oggi, a causa del fallimento dello Stato centrale, le tribù guadagnano d’importanza. Prima rapivano, adesso uccidono», esclama Alì Tula, studente di Lingue che a tempo perso fa la guida turistica. «Come è già avvenuto in Iraq e Afghanistan, non è difficile che la criminalità comune possa fondersi nel terrorismo fondamentalista».