Marco Belpoliti, La Stampa 7/1/2010, 7 gennaio 2010
Il miraggio della sicurezza Nel 1580 Montaigne visita Augusta. Vi arriva di notte e rimane stupito per le precauzioni cui si deve sottoporre: una serie di porte di ferro, ingressi segreti, stanze buie in cui sostare
Il miraggio della sicurezza Nel 1580 Montaigne visita Augusta. Vi arriva di notte e rimane stupito per le precauzioni cui si deve sottoporre: una serie di porte di ferro, ingressi segreti, stanze buie in cui sostare. Le precauzioni sono proporzionali al clima d’insicurezza che la città di 60 mila abitanti, la più ricca della Germania, vive in quell’epoca: contese religiose, Turchi alle porte, timore di sortite. Ogni straniero è sospetto, in particolare la notte. Ma questa città, racconta Jean Delumeau, lo storico francese, autore di La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII), nutre un sentimento di timore verso i propri stessi cittadini i cui «turbamenti» sono imprevedibili e pericolosi. La paura ha accompagnato la storia umana, nata con l’uomo nell’età più oscura, nel corso dei secoli non l’ha abbandonato mai, anche se era sembrata diradarsi, almeno per quanto riguarda le città. Uno storico dell’architettura ha infatti notato che lo spessore degli edifici è andato via via assottigliandosi, dai massicci muri delle fortezze medievali alle pareti sottili del cemento moderno, sino alle «città di bits», edifici e abitazioni virtuali della post-modernità. Tuttavia la paura, il senso d’insicurezza, ci dicono gli psicologi sociali, oggi non sembrano calare, anzi. Le paure negli ultimi decenni sono cresciute a dismisura: epidemie, stranieri, peste atomica, terrorismo, virus informatici, malattie; tante paure che stimolano richieste continue di sicurezza: inferriate alle finestre, cani da guardia, sensori elettronici, telecamere, panic room, polizia privata, esami clinici. Siamo dunque ritornati al Medioevo? Viviamo in una nuova epoca del terrore generalizzato? Il sociologo Wolfgang Sofsky ci ricorda nel suo Rischio e sicurezza (Einaudi) che è «da quando popolano la terra che gli uomini sono alle prese con il problema di mettersi al sicuro». La paura non è solo un limite, ma anche un impulso indispensabile della specie umana. Ha scritto Roland Barthes, semiologo e saggista francese: la paura è stata una delle grandi passioni della mia vita. Viviamo dentro la «cultura dell’apprensione», per cui le norme di sicurezza negli aeroporti tendono a diventare totali e assolute nella speranza di fugare il timore dell’attentato, come se la sicurezza assoluta fosse davvero a portata di mano mediante una strumentazione sempre più complessa e sofisticata, destinata, al contrario, a suscitare impedimenti e paralisi, come è accaduto in questi giorni. Stiamo tornando, sostiene Sofsky, alla paura come tecnica stessa del governo dell’umanità secondo quanto avevano teorizzato Montesquieu e Hobbes, quando tra ’500 e ’600 le condizioni d’insicurezza crescente, e la corrispondente domanda di rassicurazione e garanzia agli apparati coercitivi degli antichi regimi, avevano portato al contratto sociale degli stati moderni, in cui la libertà dei singoli era subordinata all’interesse generale del Sovrano. In cosa si differenzia l’insicurezza del presente rispetto al passato? Zygmunt Bauman lo spiega in Paura liquida (Laterza). Da un lato, c’è il senso di solitudine crescente imposto da una società sempre più individualizzata, per cui si crea un’ansia crescente nelle persone che vedono nella società un luogo di concorrenza e competizione, e non più uno spazio in cui il singolo trova ascolto e aiuto, creando con questo una quotidiana insicurezza; dall’altro, il senso di insicurezza è il risultato della crescita dell’apparato tecnico e scientifico che ci rende sempre più consapevoli dei rischi a cui siamo esposti. L’aumento delle nostre conoscenze e delle possibilità di rischio, scrive Bauman, invece di rassicurarci ci rende ansiosi. L’allungarsi della vita fa aumentare la paura della morte, che le pratiche rituali del passato aiutavano invece a tenere sotto controllo. Paradossalmente l’uomo contemporaneo sembra voler affrontare le paure minute della vita, che generano un senso d’insicurezza pulviscolare, diffuso, piuttosto che l’angoscia della morte in generale. Bauman parla di «paure secondarie» che conducono a una sorta di smaterializzazione della paura stessa: a forza di allontanarsi dal suo oggetto, oggetto singolo e circoscritto, la paura si concentra su un oggetto secondo, variabile, ma sempre presente (cancro, uragani, attentati, crisi finanziarie, licenziamento, ecc.), così da invadere l’intera società. La globalizzazione fa sì che il timore dell’insicurezza si estenda a dismisura: non si è mai al sicuro in nessun luogo perché il mondo è totalmente unificato. L’effetto più immediato di questo, conclude Bauman, e con lui gli altri sociologi del rischio (Niklas Luhmann e Ulrich Beck), è il sacrificio della propria libertà personale, della privacy, a vantaggio di un sistema ipertrofico di controllo, un Panopticon video-sensoriale, per dirla con Michel Foucault, che non è tuttavia in grado di assicurarci il controllo effettivo del rischio. Siamo al tramonto dell’emozione del possibile come la definisce Delumeau? La libertà come abbandono della sicurezza, per accettare il rischio della vita, è arrivata al capolinea?