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 2010  gennaio 06 Mercoledì calendario

LA ”SCOPERTA” DELL’IMPORTANZA DELL’ISTRUZIONE




2.1 - LE SCUOLE PRIMA DELLA RIFORMA SETTECENTESCA

Il problema di un’adeguata rete scolastica, sorretta da un intervento diretto dello stato, viene affrontato per la prima volta nella seconda metà del ’700, anche se il sistema scolastico creato in quel periodo, e soprattutto nella successiva età napoleonica, ha potuto contare su una lunga, seppur variegata e discontinua, tradizione scolastica. E’ proprio dal processo di rifondazione della rete scolastica iniziato nella seconda metà del ’500 che bisogna partire per comprendere la realtà scolastica settecentesca, poiché è nel corso del ’500 che avvengono le modificazioni più significative dell’assetto scolastico tradizionale, grazie soprattutto all’attività di quegli ordini religiosi che avevano assunto l’istruzione del popolo come terreno privilegiato del proprio apostolato[13].

Appare tuttavia convenzionale e poco credibile identificare totalmente le scuole dell’antico regime con i tradizionali collegi degli ordini religiosi, i quali, secondo G.P. Brizzi, hanno avuto sì un ruolo egemone nel connotare la scuola dell’antico regime sul piano organizzativo e didattico, ma da soli non esauriscono la ricchezza di specificazioni delle istituzioni scolastiche[14]. Se per oltre due secoli i collegi si identificarono con la formazione scolastica e furono i luoghi di istruzione più prestigiosi e frequentati, con un impianto culturale, didattico e organizzativo che rappresentò un modello di riferimento per altre realtà scolastiche, non va dimenticato che essi furono istituzioni quasi esclusivamente cittadine, riservate ai maschi, e che si riferivano ad un tipo di scuola media-superiore, aperta a chi già conosceva i primi rudimenti del leggere e dello scrivere. Conviveva accanto una rete, anche se poco omogenea e continua, di "punti" di insegnamento sul territorio, privati o pubblici, sorretti da contributi e lasciti, che intendevano introdurre ragazzi nelle scuole dei collegi o davano una infarinatura di nozioni basilari per la vita quotidiana[15].

L’alfabetizzazione delle masse, inoltre, non va identificata con la scolarizzazione, né è da considerarsi limitata alla sola età infantile; le scuole non erano ancora una tappa obbligata, ma una delle strade possibili di formazione. Le abilità e l’apprendimento di un mestiere si trasmettevano in molti modi e il saper leggere, scrivere e fare i conti non rappresentavano un valore assoluto e significante, né un tutto inscindibile, soprattutto in campagna. Imparare a scrivere, ad esempio, era più impegnativo e a lungo risultò limitato e condizionato anche per il suo complesso iter di apprendimento[16].

Ma è soprattutto con la Riforma cattolica che si assiste ad un moltiplicarsi di iniziative in campo culturale e assistenziale, sorrette da una finalità e da una antropologia religiosa. All’idea dell’educazione come libero ed integrale sviluppo delle potenzialità umane, proprie della mentalità dell’umanesimo[17], si viene sostituendo quella per cui l’educazione è innanzitutto disciplina del corpo e dello spirito e trasmissione di determinati principi morali e religiosi in vista della formazione del "perfetto cristiano". Si perde in tal caso la fiducia umanistica nell’autonomia della morale naturale, sostituita da una visione pessimistica della natura umana, salvabile con un continuo sforzo di dominio sulle passioni e sugli istinti, con una fede incrollabile, con le "opere buone" e con la presenza della grazia di Dio.

"Gli uomini e le donne della Riforma cattolica aggiunsero nuove scuole e nuove priorità pedagogiche all’educazione rinascimentale. E probabilmente i riformatori cattolici dedicarono all’educazione maggiori energie e risorse che ad ogni altra attività religiosa o caritatevole. Ciò provenne da un unico impulso originario, il desiderio di fornire una istruzione religiosa basilare per rendere gli uomini migliori in questa vita e per aiutarli a ottenere la salvezza nella vita futura" - afferma Paul F. Grendler[18]. Si combinò quindi l’insegnamento religioso con una istruzione più ampia; per gli strati più poveri della società era ritenuto sufficiente il leggere e lo scrivere in volgare in scuole gratuite, mentre per i più abbienti vi erano le scuole del latino: in ambedue i casi però il fine principale era di insegnare la dottrina del cattolicesimo, per riformare i costumi, salvare le anime e formare una società di cristiani.

Fondamentali si rivelarono il dibattito e le conclusioni del concilio di Trento (1545-1563), che diede una risposta "certa" ai problemi della fede e della morale "gettando le basi sul piano della antropologia mediante l’articolazione del discorso attorno al problema della giustificazione". Nella sesta sessione, nel gennaio 1547, fu chiarita la posizione della chiesa cattolica sulla giustificazione mediante la grazia e la possibilità della cooperazione umana in virtù della libertà. Venne affermata la libertà dell’uomo insieme con la sua vulnerabilità, la gratuità della giustificazione insieme con la responsabilità della accettazione e della cooperazione, la parte decisiva di Dio e insieme dell’uomo: ma l’uomo nascendo, macchiato dal peccato originale, poteva essere purificato solo col battesimo, cioè mediante i meriti di Cristo e tale giustificazione rendeva l’uomo giusto interiormente[19].

Su questo principio si ergeva tutto l’edificio della antropologia cristiana, la quale afferma che senza la grazia di Dio nessuno può salvarsi, ma alla salvezza l’uomo può collaborare, mediante le opere buone, o dare una risposta negativa: il "timore di Dio, fonte di ogni sapienza" e l’operosità umana diventano così i cardini dell’educazione cristiana controriformista.

Partendo da queste premesse acquisterà considerazione l’età infantile e si organizzerà la protezione del fanciullo, l’esemplarità della vita, la catechesi ed ogni insegnamento scolastico e familiare, perché tutto deve favorire e garantire l’accesso alla fede e l’adesione alla grazia divina, tenendo conto che il peccato originale ha rovinato e debilitato la natura umana nelle sue forze e il libero arbitrio è soggetto all’inganno e alle passioni. Mediante la risposta alla grazia divina e con l’aiuto dell’educazione si corroboreranno le energie naturali e ci si incamminerà sulla strada della salvezza: con la preghiera, l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti e le buone opere.

Si corse il rischio - scrive L. Secco - di veder sorgere sistemi educativi fondati sul sospetto verso la natura; invece di sostenere l’interiorità del soggetto e lo sviluppo delle sue capacità, si arrivò ad opprimere facilmente l’iniziativa del soggetto, insegnando la mortificazione delle passioni, la fuga dai compagni cattivi e dall’ozio, la ritiratezza entro le pareti domestiche o del monastero, assumendo l’educazione i caratteri della precettistica e della rinuncia "esprimendosi nella famiglia come sottomissione al padre ed agli usi e costumi da lui fatti valere, nella scuola come venerazione dell’auctoritas magistri, nel collegio come obbedienza, spesso cieca, ed in tutti i rapporti sociali come accettazione dell’ordine stabilito"[20].

Predicatori e studiosi, soprattutto gesuiti, si occuparono di diffondere fra il clero ed i fedeli questo messaggio di salvezza che faceva leva su un certo modo di educare, che considerava la natura umana bisognosa di correzione ("La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l’allontanerà da lui"), anche con mezzi "forti" ("Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo"); attraverso le prediche, le conferenze, i quaresimali questa dottrina entrava nelle case di molta parte del popolo e ne condizionava alquanto il comportamento[21].

In questo quadro la religione diventa naturalmente il fondamento della morale e dell’educazione e ai maestri, considerati come secondi padri, spetta non ”solamente insegnar le lettere, ma molto di più i buoni costumi, e la pietà christiana, qualità assolutamente necessaria per conseguir il nostro fine, cioè l’eterna beatitudine"[22]; per questo la giornata modello dello studente cristiano, soprattutto quello collegiale, ricalca quasi completamente lo schema della vita monastica, la quale intende disciplinare tutte le energie individuali verso Dio con l’occupazione di ogni momento in esercizi religiosi ed attività specifiche, in modo da evitare l’ozio e le occasioni di peccato.

Pur in presenza di questa antropologia esaltante la vita soprannaturale, non si può tuttavia negare l’interesse, seppur indiretto, di fondatori ed educatori cristiani verso la diffusione della cultura e la valorizzazione delle capacità umane, ritenute essenziali per l’impegno del cristiano nel mondo. E’ quanto emerge dalle ricerche di alcuni studiosi della storia delle istituzioni scolastiche, che negli ultimi anni si sono interessati anche alle iniziative avviate nel corso del Cinque-Seicento nel campo della catechesi e della formazione cristiana della gioventù, particolarmente delle cosiddette scuole della dottrina cristiana, delle quali hanno sottolineato il ruolo nell’acculturazione cristiana del popolo, ma anche il contributo nella diffusione dell’alfabetizzazione, almeno alla capacità del leggere, e in minor misura dello scrivere.

Fondate da Castellino da Castello, cappellano della chiesa dei SS. Giacomo e Filippo a Milano, nel 1536, con la finalità dell’insegnamento del catechismo e dei principali doveri del cristiano, le scuole di dottrina cristiana divennero anche luoghi in cui si insegnava a leggere e a scrivere. "Le confraternite consideravano l’ignoranza spirituale e l’analfabetismo come due aspetti di uno stato di deprivazione" e così i bambini imparavano gli elementi fondamentali della religione "salmodiando e memorizzando il Paternoster, l’Avemaria, eccetera. Salmodiando e memorizzando le preghiere i bambini imparavano anche a leggere e a scrivere"[23]. L’introduzione al Regolamento milanese recitava: "Questa è la regola de la Compagnia dei Servi de’ Puttini in charità, che insegna le feste a puttini e puttine legere, scrivere, et li buoni costumi christiani, gratis et amore Dei, principiata in Milano ne l’anno 1536"[24].

I testi prevalentemente usati erano il Summario della vita Christiana, un piccolo opuscolo il cui contenuto era di origini medievali e conteneva le preghiere e le conoscenze basilari per un cattolico, e l’Interrogatorio, un catechismo a domande e risposte che fungeva da testo per un’istruzione religiosa più avanzata e che presentava due temi tipici dei futuri catechismi: il timor di Dio come inizio della sapienza e la necessità per il cristiano di compiere opere buone[25].

Le scuole di Dottrina Cristiana, secondo i loro sostenitori, avrebbero riversato benefici sociali e morali sulla popolazione, poiché "un popolo bene istruito nella dottrina cristiana è pacifico, obbediente, giusto, costante, e fedele difensore della patria"[26].

Questa modalità di insegnare la dottrina cristiana e, nello stesso tempo, di rendere capaci gli alunni nel leggere e nello scrivere si diffuse a macchia d’olio partendo da Milano e approdando in molte altre città, fra cui Pavia nel 1538, Venezia nel 1540, Verona nel 1541, Brescia nel 1544. Il concilio di Trento incise sulla loro diffusione, rendendo tale scuola un’istituzione ufficiale della Chiesa per cui, pur nella continuità degli scopi, cioè la riforma della vita sociale attraverso l’istruzione religiosa, assunsero una nuova fisionomia, trascurando sempre più l’insegnamento del leggere e dello scrivere, a favore di una più intensa alfabetizzazione religiosa[27].

Le Regole per la Congregazione, approvate e fatte stampare dal vescovo Agostino Valerio per la città di Verona[28], invitano a leggere ”il libro dell’educazione de i figliuoli, fatto da Monsignor Silvio Antoniano, nostro antico e amorevolissimo amico, libro pien di eruditioni varie, e di mirabile devotione, il quale, perché sia più nelle mani di tutti, si va pensando di ridurlo in compendio, acciocché, e intieramente, e compendiosamente si possa leggere”[29] e ricordano il decreto di Leone X, approvato dal Concilio Lateranense V (1512-1517) nella sessione IX, sull’obbligo dei maestri di insegnare, oltre al leggere e lo scrivere, anche la religione: ”Essendo, che ogn’uomo dalla sua giovinezza sia inclinato al male, e sia di grande importanza dall’età tenera assuefarsi al bene; determiniamo, e ordiniamo, che gli Maestri di Scuole, e quelli, che insegnano a’ fanciulli, a’ giovani debbano instruire non solo in Grammatica, e Rethorica, e in simil altra facoltà; ma ancora gl’insegnino quelle cose, che s’appartengono alla Divina Religione, si come sono li divini Precetti, gl’articoli della fede, Sacri Hinni, Salmi, e le vite de’ Santi, e nelli giorni di festa non possino insegnar altro, che quello si appartiene alla Religione, e buoni costumi, e siano obbligati ad ammaestrargli in quelle cose, e essortargli, e quanto possono sforzargli, che vadino non solo alle Messe; ma anco alli Vespri, e ad ascoltare li Divini Officij, e così ancora alle prediche, e sermoni, ne gli possino leggere cosa, la qual sia contro i buoni costumi, o muova alla empietà”[30].

Oltre alle scuole di dottrina cristiana, che, come abbiamo visto, dopo il concilio di Trento accentuarono la funzione di insegnamento religioso, si diffusero in pochi anni, nelle città e nei borghi più popolati, i nuovi ordini religiosi della Riforma cattolica, soprattutto nella seconda metà del Cinquecento che, sorti inizialmente con finalità pastorali ed assistenziali, modificarono profondamente il panorama dell’istruzione. Parecchi di essi finirono per dedicarsi, a volte esclusivamente, all’insegnamento, considerato una efficace modalità di formazione cristiana, dedicandosi ad istruire bambini e giovani non destinati al sacerdozio, con un programma di latino o di volgare. Inizialmente gratuite, le nuove scuole dei diversi ordini religiosi (dai Gesuiti, ai Barnabiti, ai Somaschi, ai Piaristi o Scolopi), un po’ alla volta si sostituirono alle scuole esistenti o ne crearono di nuove e "per la prima volta da secoli, grazie ai nuovi ordini, la Chiesa fece sentire il suo peso nell’educazione preuniversitaria italiana"[31].



I Gesuiti, ottenuta l’approvazione da Paolo III nel 1540, fecero voto di impegnarsi in attività religiose tradizionali quali la predicazione, le opere di carità e specialmente l’istruzione catechistica per contribuire al rinnovamento della società, ma gli eventi li portarono a interessarsi anche dell’insegnamento. Nel documento iniziale del nuovo ordine, (I cinque capitoli), che il fondatore Ignazio di Loyola faceva presentare a Paolo III dal cardinale Contarini il 3 settembre 1539 e che l’anno dopo verrà inserito nella bolla di approvazione dell’ordine, si enumerano distintamente i mezzi coi quali i dieci chierici di Spagna, di Francia e di Portogallo volevano aiutare le anime a conseguire il loro fine ultimo. Erano essi la parola di Dio, le opere di misericordia, il catechismo ai fanciulli e ai rozzi, la direzione delle coscienze nel sacramento della penitenza. Di istituzione scolastica non si faceva parola alcuna[32]. L’insegnamento, e quindi l’educazione scolastica, partiva dalla riflessione della sua importanza per la trasformazione cristiana della società; non è quindi frutto di una primitiva vocazione o di spirito filantropico, ma scaturisce come risposta adeguata ad un impegno apostolico ("per la maggior gloria di Dio")[33].

Dopo la fondazione di luoghi di istruzione religiosa per quei giovani che intendevano seguire la scelta religiosa e seguire i corsi universitari, come i collegi residenziali a Padova nel 1542 e a Bologna nel 1546, si arrivò ad organizzare lezioni interne ai collegi stessi a cui successivamente poterono partecipare anche gli esterni, dando così il via alla diffusione dell’educazione collegiale.

Il successo dell’apertura nel 1548 di una scuola gratuita a Messina per ragazzi e giovani attirò sui Gesuiti le richieste da tutta Italia soprattutto da parte dei principi, di cui cercavano la protezione; nel 1551 la Compagnia di Gesù fondò un collegio a Roma, che divenne il modello per tutti gli altri, ed aprirono scuole anche a Venezia nel 1551, a Padova nel 1552, a Brescia nel 1567, a Milano nel 1571, a Verona nel 1578. Sul finire del secolo nella provincia veneta gesuita si contavano parecchi luoghi in cui era presente la congregazione e più di ottocento erano gli scolari che vi potevano accedere[34].

Dopo un iniziale e parziale esperimento di educazione aperta a tutti e gratuita, i gesuiti adottarono un indirizzo pedagogico che li trasformò in insegnanti delle classi superiori e medie; nel 1551 Ignazio di Loyola ordinò l’abolizione dell’insegnamento elementare in tutti i collegi, adducendo la scarsità dei maestri di fronte alle continue richieste. Venivano accettati quindi scolari che già sapevano leggere e scrivere per offrire loro una cultura "disinteressata", che mirava alla formazione dell’uomo, più che alla preparazione ad un preciso lavoro, mediante la lettura degli auctores della classicità e l’uso del latino[35]. A partire dal XVII secolo i collegi assunsero una connotazione sempre più elitaria divenendo di fatto, con alcune eccezioni, il luogo privilegiato per l’istruzione dei ceti medio-alti, dove accanto al corso letterario-umanistico facevano la loro comparsa altri insegnamenti, propri della classe nobile, come la scherma, l’equitazione, la danza, lo studio delle lingue.

Il programma scolastico dei Gesuiti, contenuto nella Ratio studiorum (un insieme di regole, articolate in trenta capitoli, riguardanti l’organizzazione della vita scolastica, frutto di esperienze di mezzo secolo), imitava sostanzialmente il programma umanistico sviluppato nel XV secolo e si basava su una solida base di grammatica latina, sui testi principalmente di Cicerone e Virgilio, sulla ripetizione, sul continuo ripasso, sulla memorizzazione, sulla disputa, su continui esercizi di composizione e sul procedere ordinatamente e in modo alquanto rigido negli studi[36]. Comprendeva un sistema suddiviso in cinque classi (una unità di lavoro da svolgere piuttosto che un periodo di tempo), con un anno scolastico diviso in due semestri, iniziante in ottobre, con cerimonie solenni e con gli esami pubblici: tre classi di grammatica, una di umanità e una di retorica, con lezioni previste in cinque-sei ore giornaliere, divise tra il mattino ed il pomeriggio, per circa 130 giorni all’anno di scuola, tolte le numerose festività religiose[37]. A questo corso, nei collegi più importanti, poteva seguire un corso filosofico di tre classi incentrato sullo studio delle dottrine di Aristotele alla luce delle interpretazioni di Tommaso d’Aquino ed uno quadriennale di teologia[38]. Le classi, ognuna con un suo insegnante, erano suddivise in gruppi di dieci alunni e si procedeva coltivando un forte spirito competitivo ed un uso frequente di premi e di castighi[39]. Gli scolari più capaci potevano finire le cinque classi anche in quattroanni; ad altri ne occorrevano di più; per questo vi erano esami anche a metà anno scolastico, verso Pasqua, per promuovere quelli che potevano salire al grado superiore[40]. Il metodo didattico seguito era quello parisiensis, che consisteva principalmente nella distinzione graduale delle classi e dei corsi, per cui gli alunni attendevano ad un contenuto alla volta, progredendo ordinatamente, e nel fatto che i professori si prendevano cura particolare degli alunni con assidue esercitazioni. Data l’unicità della materia, il professore in ogni classe era unico ed era un gesuita, con una preparazione culturale ed una formazione specifica per l’insegnamento ottenuta mediante un tirocinio (il magistero) nell’insegnamento nello stesso collegio[41].

La storia dell’ordine dei Gesuiti appare straordinaria per la rapida espansione, ma anche singolare per le controversie e i giudizi discordanti che l’accompagnarono. Dalla Repubblica Veneta furono espulsi nel 1606 a seguito del contrasto con la Chiesa di Roma in relazione alla vicenda di Paolo Sarti; da Verona iniziarono l’evacuazione il 7 maggio, dopo aver ricevuto dai rettori della città, a nome del governo veneto, l’ingiunzione di non pubblicare l’eventuale scomunica da parte del papa Paolo V. Vi fecero ritorno nel 1656. Ma fu un altro papa, Clemente XIV, che, momentaneamente, pose fine alla loro espansione con la soppressione del 1773, quando i loro collegi erano circa 660[42].

In generale gli edifici in cui erano collocati i collegi dei Gesuiti furono di dimensioni notevoli e architettonicamente curati, con tante comodità in modo che il tempo degli studenti, avvezzati nella maggioranza alla "vita cortese di società", risultasse piacevole, potendo disporre anche di ricche biblioteche, di ambienti per le rappresentazioni teatrali e per le arti cavalleresche; "la disciplina fu rigida ma non aspra; le pene corporali limitate; l’orario degli studi fu saggiamente ridotto, interrotto da esercizi ginnastici e da ricreazioni", ma, sottolinea A. Banfi, "l’abitudine alla soggezione, alla obbedienza, alla ricerca della propria individualità" portò ad un "avvilimento etico della personalità", che, insieme con la statuità dei programmi di studio, rappresenta uno dei difetti maggiori dell’educazione gesuitica[43].



Un altro fondatore del XVI secolo, Giuseppe Calasanzio, si occupò invece prevalentemente di scuola gratuita in volgare. Egli, nativo di un villaggio dell’Aragona, trovandosi a Roma e notando come gran parte del popolo rimanesse senza alcuna istruzione, cominciò con altri preti nel 1597 a far scuola gratuita ai fanciulli poveri in Trastevere. Le sue scuole presero il nome di Scuole pie o Piariste o degli Scolopi e, almeno inizialmente, vi accedevano solo ragazzi con certificato di povertà rilasciato dal parroco. Il suo insegnamento, come quello degli altri fondatori, univa l’istruzione con le pratiche religiose, ma mirava anche a dare una certa preparazione professionale, insegnando l’abbaco ed aiutando gli scolari a trovare un lavoro. La sua fu, secondo alcuni studiosi, la prima scuola popolare europea[44].Il certificato di povertà per essere ammessi alle scuole fu abolito nel 1617 e l’ordine scolopio cominciò ad interessarsi anche di altre classi sociali[45].

Oltre all’apertura verso la classe povera, in Calasanzio si può riscontrare una "rottura" con la cultura del tempo nell’impostare l’educazione e l’istruzione su una base scientifica, insegnando ad esempio la matematica fin dalle elementari.

Il corso elementare si strutturava su cinque classi: nella quinta si veniva delineando una differenziazione fra gli scolari che, all’età di circa 12 anni, potevano scegliere se studiare l’abbaco e lavorare come apprendisti o altro o se proseguire nel normale programma del latino. Le regole del 1610 sul modo di insegnare nelle scuole calasanziane, affermavano un’esigenza che diverrà solo qualche secolo dopo una conquista e cioè che "li maestri non tengano occupatione alcuna fuor delle scuole, (se vogliono profittar nelli scolari)"; ai più piccoli si insegnava cominciando dal Santa Croce e dal compitare, usando un cartellone attaccato al muro con le lettere dell’alfabeto; si proseguiva poi con il Salterio, con altri libri spirituali "di buona et chiara stampa" in volgare, con l’Abbaco, dividendo la classe in due parti sull’esempio dei gesuiti, in romani e cartaginesi o equites et pedites.



I Barnabiti o Chierici regolari di San Paolo seguirono le orme dei Gesuiti. L’ordine fu fondato a Milano nel 1530 da Antonio Maria Zaccaria, in collaborazione con due nobili milanesi Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia, con finalità catechistiche, devozionali e pastorali finché nel 1605 accettò l’offerta di aprire una scuola - le Arciboldi a Milano nel collegio di S. Alessandro - a cui poi ne seguirono altre. Essi offrivano l’insegnamento gratuito del programma di latino ad allievi che già conoscevano gli elementi di grammatica latina.

Alla fine del secolo XVII i Barnabiti dirigevano 18 collegi in Italia, 9 in Francia e 3 in Savoia.



L’ordine dei Somaschi o Chierici regolari di Somasca (paese vicino a Bergamo) fu fondato dal nobile veneziano Girolamo Miani o Emiliani nel 1534[46], quando raccolse alcuni ragazzi abbandonati a Venezia, alloggiandoli e insegnando loro la dottrina cristiana, la lettura, la scrittura, l’aritmetica ed un mestiere. Per gli orfani "volle sorgesse una casa fissa e prescritto modo di vivere. Di poi da per tutto, e da trivii e da piazza, raccolto gran numero d’orfani, gli condusse nella casa allestita: invitò da ultimo con istipendio artefici, i quali ammaestravano fanciulletti nell’arti, che si esercitavano sedendo, colle quali e alleviassero in qualche parte la presente loro povertà, e un giorno vivessero onestamente, e, se chiedesse necessità, sostenessero anche le lor famiglie"[47]. Sorti dapprima con lo scopo di sostenere degli orfanotrofi, anche femminili, ai quali i Somaschi prestavano assistenza e fornivano anche gli elementi basilari dell’istruzione e della formazione professionale, in seguito, con l’apertura del collegio Gallio a Como nel 1583 e del Clementino a Roma nel 1595, seguirono sempre più l’esempio dei gesuiti e dei barnabiti e diventarono maestri delle classi superiori[48].

Un ruolo di particolare importanza ebbero nello stato veneziano, sia per le loro radici veneziane sia perché Venezia mise al bando i gesuiti nel 1606 durante il conflitto con Roma per l’interdetto. In quegli anni essi fondarono un collegio a Padova nel 1606, aprirono una scuola a Brescia nel 1628, una a Bergamo nel 1632 e una terza a Verona nel 1639.



Nel campo scolastico vanno ricordati, anche se furono attivi in un periodo seguente, i Fratelli delle scuole cristiane, fondati da G.B. De La Salle (1651-1719) nel 1684, ai quali si deve, secondo alcuni, la fondazione di vere e proprie scuole popolari, i cui principi e metodi furono esposti nella Guida delle scuole del 1720. Il corso di studi comprendeva la religione e i tradizionali insegnamenti di base del leggere, scrivere e far di conto e arti meccaniche. Tali scuole, nonostante il loro carattere ascetico-religioso, esercitarono un’indubbia efficacia sulla diffusione dell’istruzione ed elaborarono praticamente i metodi dell’insegnamento elementare; l’ordine aprì nel 1685 anche una prima scuola normale per i maestri.



Già il primo Cinquecento vide il forte interesse educativo di una fondatrice come Angela Merici (1470/75-1540), da cui nasceranno successivamente le Orsoline, ”’il tipo’ delle insegnanti, come è avvenuto con i Gesuiti per i maschi”[49]. Nel 1685 Rosa Venerini istituì a Viterbo le scuole delle Maestre Pie Venerini. L’istruzione femminile tuttavia si sviluppò molto più lentamente di quella maschile, sia per la diffusa e solidificata concezione che considerava la donna come non bisognosa di istruzione per il ruolo che ricopriva, sia anche a causa delle restrizioni imposte alle religiose nella possibilità di uscire dal convento. Pio V infatti nel 1566 aveva disposto che le monache non potessero uscire dal convento tranne in caso di gravi emergenze e quindi gli ordini religiosi femminili potevano istruire solo le ragazze che vivevano nel convento o che vi si recavano come convittrici esterne.



In molti luoghi d’Italia la direzione delle scuole nei grossi comuni, nel corso del Cinque e Seicento, venne affidata ad ordini religiosi: i Barnabiti erano attivi soprattutto in Lombardia, i Somaschi nei territori veneziani, mentre i Gesuiti e gli Scolopi dirigevano scuole in tutta Italia. Varie ragioni spingevano i consigli comunali a ricorrere agli ordini religiosi per l’istruzione e l’educazione della gioventù: l’ottima reputazione pedagogica di cui godevano gli ordini religiosi, potendo annoverare fra i loro membri studiosi ed insegnanti eminenti; la "pubblicità" che veniva fatta aprendo i collegi alla popolazione in occasione di feste, dispute, esami pubblici; l’alleggerimento dei propri oneri amministrativi da parte dei comuni, non dovendo più pensare al reclutamento dei maestri, alla sorveglianza delle scuole, dei programmi; il risparmio probabilmente riguardava anche la minor spesa, in quanto, dopo l’iniziale esborso per l’edificio scolastico, le spese per gli stipendi e l’alloggio erano basse se non addirittura nullo nel caso, come a Verona e in altre città, subentrasse un capitale privato di qualche benefattore.





[13] G.P. BRIZZI, Premessa, in G.P. BRIZZI (a cura di), Il catechismo e la grammatica. Istituzioni scolastiche e riforme nell’area emiliana e romagnola nel ’700, vol. II, Il Mulino, Bologna, 1986. I nuovi ordini religiosi dei primi decenni del ’500 sono: i Teatini nel 1524 ad opera di Gaetano Thiene e G. Piero Carafa; i Barnabiti nel 1530 a Milano per opera di Anton Maria Zaccaria, Antonio Morigia e Bartolomeo Ferrari; i Somaschi nel 1534 ad opera di Girolamo Miani; la Compagnia di Gesù nel 1540 ad opera di Ignazio di Loyola. A differenza degli ordini mendicanti medievali, questi istituti assunsero la forma canonica di congregazione di chierici regolari e intendevano offrire un modello di sacerdote fornito di una buona preparazione, di buoni costumi ed impegnato nell’azione pastorale.

[14] G.P. BRIZZI, Introduzione, in G.P.BRIZZI (a cura di), Il catechismo e la grammatica. Istruzione e controllo sociale nell’area emiliana e romagnola nel ’700, vol. I, Il Mulino, Bologna, 1985.

[15] La controversia sul confronto fra scuola pubblica e privata è antica quanto la scuola stessa. Scriveva, sulla scia di quanto aveva sostenuto secoli prima Quintiliano, Ottavio Piceno nel 1701: "Quei che insegnano in una Pubblica Scuola, sono come Capitani da guerra; quei che insegnano all’ombra, cioè a un poco di fanciulli in lor casa, sono come da giostra. Sicché più ne’ Pubblici, che ne’ Privati potremo sperare di rinvenire le prerogative d’un buon Maestro" (O. PICENO, I vantaggi della scuola pubblica sopra la privata, P. Mattia Miccioni e M. Nestenus, Firenze, 1701, p. 26). Per Piceno tuttavia la scuola pubblica ben organizzata si identificava con i collegi del tempo retti da religiosi, che insegnano "per amor di Dio".

[16] Solo alla fine del Settecento si percepì l’importanza di unire le due abilità , leggere e scrivere, insieme. La scrittura infatti fece parte per lungo tempo del dominio dei tecnici e non del bagaglio tradizionale dei maestri di scuola. Per la scrittura si partiva dalla traccia degli elementi fondamentali delle lettere e dalla ripetizione meccanica degli esemplari eseguiti e proposti dal maestro; poi gradualmente si passava all’esecuzione dei singoli caratteri, delle sillabe e delle parole. (M. ROGGERO, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 56-73).

[17] "Io chiamo liberali quegli studi che convengono a uomo libero, per i quali si esercita o si coltiva la virtù e la sapienza, e il corpo e l’anima ad ogni miglior bene si educa, e coi quali siamo soliti procurarci gloria ed onore, premii promessi, dopo quello della virtù, all’uomo sapiente. Poiché, come le arti ignobili hanno per fine il guadagno e il piacere, così la virtù e la gloria rimangono lo scopo degli studi liberali"( PIER PAOLO VERGERIO, Dei nobili costumi e degli studi liberali della gioventù, in E. GARIN, Educazione umanistica in Italia, Laterza, Bari, 1971, Ediz. VIII, p. 82).

[18] P. F. GRENDLER, La scuola nel rinascimento italiano, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 356.

[19] L. SECCO, La pedagogia della Controriforma, La Scuola, Brescia, 1973, pp. 12 e seg.

[20] Idem, p. 19.

[21] I due passi sono tratti dalla Bibbia, Proverbi: XIII, 24 e XXII, 15. Tra i famosi predicatori ed autori di trattati di morale cristiana, in cui si presenta anche il modo di educare cristianamente i giovani secondo la visione tridentina ricordiamo: P. Segneri (Il cristiano istruito nella sua Legge. Ragionamenti morali, Stamp. Baglioni, Venezia, 1773; il libro ebbe una prima stampa nel 1686 ed altre nell’Ottocento); Agostino da Fusignano ("Discorsi istruttivi sopra i doveri del cristiano, Libreria Novelli, Venezia, 1778); Giacinto da Montargon ("Dizionario apostolico per uso de’ parrochi, e predicatori, G. Bassaglia, Venezia, 1782").

[22] S. ANTONIANO, Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli,scritti da M. Silvio Antoniano ad istanza di Mons. Illustris. Cardinale di S. Prassete Arcivescovo di Milano, S. dalle Donne- G. Stringari,Verona, 1584, Libro III, cap. XXVIII, p.142.

[23] P.F. GRENDLER, op. cit., p. 363.

[24] P. TACCHI VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, Vol. I, D. Alighieri, Roma.Milano, 1910, p. 283.

[25] Il catechismo sarà a lungo considerato il testo base per imparare a leggere: ”Questo è il primo libro che si incomincia a leggere da’ fanciulli nelle scuole di lettere, sentesi dichiarare nelle scuole di dottrina cristiana, s’impara a memoria dalla più tenera età”, recitava una fonte ecclesiastica lombarda a fine settecento.(Riportata in M. ROGGERO, op. cit., p. 40). La dottrina cristiana e il suo insegnamento potevano avvicinare i fedeli a certi testi, e dare anche una conoscenza dell’alfabeto, "ma l’accesso reale al senso, la padronanza di altri libri al di là del catechismo venivano oltre questo tipo di scuola: per molti tra i più poveri il processo sarebbe rimasto incompiuto, o si sarebbe protratto nel tempo, legandosi agli incentivi della vita quotidiana e professionale, alle curiosità e ai contatti individuali"(M. ROGGERO, op. cit., p. 32).

[26] P.F. GRENDLER, op. cit., p. 383.

[27] A Milano nel 1591 erano salite a 120 con 13.000 ragazzi; a Venezia nel 1596 erano 30 con 6.000 ragazzi.

[28] Regole per la Congregazione della Dottrina christiana nella Città, e Diocesi di Verona, approvate da Mons. Illustrisssimo, e Reverendissimo Card. Agostino Valerio Vescovo di detta Città, G.B. Merlo, Verona, 1669.

[29] Il frutto più maturo della riflessione pedagogica avviata all’indomani del concilio di Trento nel quadro della Riforma cattolica può considerarsi l’opera di Silvio Antoniano Tre libri sull’educatione christiana dei figliuoli. Terminato nel 1582 fu pubblicato, dopo la lettura ed il giudizio di Agostino Valerio vescovo di Verona, due anni dopo. In esso viene delineato il modello del "perfetto cristiano" secondo la visione tridentina. In quest’opera "l’ideale educativo umanistico è come trascolorato e svuotato della sua essenza e del suo significato più profondo, finendo in una visione pessimistica e negativa della natura umana"(R. SANI, Educazione e istituzioni scolastiche nell’Italia moderna (secoli XV-XIX), I.S.U., Università Cattolica, Milano, 1999, p. 71).

[30] Regole per la Congregazione …, op. cit., p. 15.

[31] P.F. GRENDLER, op. cit., p. 388.

[32] Alcuni mesi dopo per chiarire dei passi del diploma di fondazione laddove si parla dell’insegnare ai fanciulli, si dichiarava che l’insegnamento da farsi per amor di Dio alla tenera età non era il letterario, ma solo quello della dottrina cristiana e dei buoni costumi; ”e quasi ciò non bastasse, in tono declamatorio fu stabilito che nella Compagnia non vi sarebbero né Studi né lezioni”(P. TACCHI VENTURI, op. cit., vol. II, p. 325-326). ”Col 1548 l’insegnamento alla tenera età, che giusta i primi capitoli era stato ristretto alle sole materie religiose, si estende in Italia anche alle lettere, e sorgono in Messina le prime scuole della compagnia di Gesù. Il Collegio, così chiamano i Gesuiti le case dove si tengono le scuole, diventa un centro di propaganda catechistica”(Idem, vol. I, p. 290). Cfr. anche G. GIAMPIETRO- F. TROSSAROLLI, La pedagogia nella tradizione culturale dei Gesuiti, in Nuove questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia, vol. I, 1977, p. 738.

[33] "La principal cura de maestri deve essere d’incamminare i loro scolari nella devotione, pietà, timor di Dio"(A.G., Roma, Mon. Paed. VII, Collectanea de ratione studiorum, p. 47).

[34] Erano: una casa professa a Venezia, una a Novellara, e collegi a Modena, Padova, Verona, Brescia, Bologna, Forlì, Ferrara. "Gli Scolari forastieri di questa Provincia sono ottocento quaranta due. Theologia sedici, Filosofia novanta, dell’Humanità superiore cento, dell’inferiore duecento ottantatre. Di Grammatica trecento cinquanta cinque. Le Scuole sono ventiuna. Di Theologia due, di Filosofia due. Quattro della superiore Humanità. Sette dell’inferiore e di Grammatica sei. Et altri tanti sono i Maestri, cioè vent’uno"(A.G., Roma, Ven. 93, p. 50).

[35] Nel 1607 i religiosi gesuiti assommavano a 11.000 e gestivano 293 collegi.

[36] ”Ogni dì siano ripetizioni delle lezioni immediate dopo la lezione, ed un’ora al dì, cioè alla sera, per far questioni e disputazioni sopra tutte le lezioni di quel giorno; ed ogni domenica dopo pranzo si disputino pubblice, a quanti vorranno venir degli scolari di fuori, conclusioni in ogni facoltà di che saranno scolari nel collegio, e per queste conclusioni sarà ogni domenica lezione che vedrà, e il sabato le dia a tutti, segnando l’ora che si disputeranno; e avanti che si disputi, il rispondente abbia a dir, quasi in epilogo, tutto quello che si sarà letto in tutta la settimana, e provare le conclusioni sue secondo che il tempo patirà. Questo sia universale e senza eccezioni in logica, filosofia e teologia”(P. TACCHI VENTURI, op. cit., vol II, p. 315).

[37] Gli esercizi letterari nelle scuole di retorica ed umanità erano principalmente cinque: "Comporre, leggere, repetere, imparare a mente, disputare"(A.G., Roma, Man. Paed. VII, p. 51).

[38] Recitava la Ratio al capitolo IX: Regole del professore di Filosofia: "2. Nei punti di qualche importanza non si allontani da Aristotele. (…) 6. Al contrario, parli sempre di S. Tommaso con onore, seguendolo volenterosamente, quando bisogna, e quando accada dissentirne, non se ne discosti se non con riverenza e malvolentieri"(Riportato in R. SANI, op. cit., p. 540). Per una storia della Ratio studiorum cfr: L. LUKACS, Ratio Studiorum, in Mon. Paed. VI; M. BARBERA, La Ratio Studiorum parte quarta delle Costituzioni della Compagnia di Gesù, Cedam Padova, 1942; G.P. BRIZZI, La Ratio Studiorum. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma, 1989. L’evoluzione della Ratio attraverso i secoli è anche in M. ZANARDI, La "Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu": tappe e vicende della sua progressiva formazzione (1541-1616), in Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, La Scuola, Brescia, n. 5, 1998, pp 135-164).

[39] M.A. Galdi nell’esaminare il metodo del mutuo insegnamento ricorda che alcuni principi basilari come "la maniera di eccitare la emulazione e facilitare l’insegnamento, non sono ignoti in Italia", ma erano già stati introdotti dai Gesuiti, i quali "punivano e premiavano e dividevano in classi gli alunni secondo il metodo che or dicesi nuovo. Anche le loro classi avevano il loro capo, ed anche questo insegnava ai meno istruiti ciò ch’egli sapeva a perfezione. Inoltre i Gesuiti dividevano i più provetti degli alunni in due classi principali, cioè Romani, e Cartaginesi; i vincitori nella palestra letteraria avevano la bandiera di vittoria; e talvolta quella toccava ai Romani, tal altra ai Cartaginesi. Il primo scolaro era salutato Imperatore. Ognuno si sforzava di acquistar questo impero scolastico, e di detronizzare il suo emulo" (M.A. GALDI, Rapporto sul metodo di Bell e Lancaster, in E. CORBI-M.R. STROLLO, L’istruzione a Napoli dal 1806 al 1860. Politica scolastica e organizzativa didattica, Pensa Multimedia, Lecce, 1998. P. 146).

[40] Per gli esami "universali" i maestri preparavano l’elenco "dividendo li scolari che si hanno ad esaminar, al men in tre gradi. Nel primo de quali sieno l’ottimi et eminenti nel saper, i quali per l’ordinario soglion esser pochi; nel secondo li buoni et che hanno imparato a suffitienza le cose proprie della scuola; nel terzo i mediocri et tolerabili"(A.G., Roma, Mon. Paed. VII, Collectanea de Ratione studiorum, Ordo et praxis studiorum inferiorum in Collegio Romano, anno 1559, p. 59).

[41] L. LUKACS-M. COLPO, Ratio studiorum (Ordinamento degli studi), in M. LAENG, Enciclopedia pedagogica, La Scuola, Brescia, pp. 9808-9816.

[42] Nel 1616 erano 372; nel 1626 erano 444; nel 1640: 518; nel 1679: 578; nel 1710: 612; nel 1749: 669 (G. GIAMPIETRO-F. TROSSARELLI, op. cit., p. 757). A partire dalla fondazione dell’ordine a metà del Cinquecento, i Gesuiti costituirono la struttura più potente nel campo dell’istruzione post elementare. "Non si corre il rischio di esagerarne l’importanza, giacché i metodi, le scuole e l’esempio dei Gesuiti permearono la pratica dell’educazione non solo nei paesi cattolici ma persino nelle regioni protestanti dove erano fuorilegge", tanto che in certe regioni d’Europa "scuola secondaria e scuola dei Gesuiti erano sinonimi"(R.A. HOUSTON, Cultura e istruzione nell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 39-40).

[43] A. BANFI, Sommario di storia della pedagogia, A. Mondadori, Verona, 1931, p. 161.

[44] F. DE VIVO, Giuseppe Calasanzio e le scuole pie, in AAVV, Nuove questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia, Vol. I, 1977, pp.709-735. Per il suo impegno verso i ragazzi abbandonati, Giuseppe Calasanzio veniva soprannominato dai "tristi" il "maestro dei mascalzoni".

[45] "Alli sopradetti Scolari si provede di carta penne et inchiostro perché se vede per esperentia che alcuni per mancam.to di carta altri per mancam.to di penne et altri d’inchiostro non potrebbono fare quel profitto che si deve. Et tutti si ricevono col testimonio del suo Parrocchiano della povertà, et nissun Scolaro può portare cosa alcuna al m.ro etiam per amorevolezza se p.a non ha licenza dal Prefetto"(Breve relatione del modo che si tiene nelle Scuole Pie per insegnar li poveri scolari…, 1610, cfr. in R. SANI, op. cit., pp. 560-561).

[46] Sulla figura e sull’opera di Girolamo Emiliani, cfr. anche: S. RAITERI, La figura e l’itinerario storico-spirituale di San Girolamo Emiliani, Studio e Vita, Genova, 1994.

[47] F. DE VIVO, I Somaschi, in Nuove questioni… op. cit., vol. I, p. 664.

[48] P.F. GRENDLER, op. cit., p. 419.

[49] E. BUTTURINI, Zefirino Agostini alla scuola di Sant’Angela Merici, in E. BUTTURINI (a cura di)Una fede operosa. Fondatori ed educatori a Verona e dintorni nel secondo Ottocento, Mazziana, Verona, 1997, p. 65. Più in generale per la fondazione della Merici, cfr. pp. 67-78.