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 2010  gennaio 06 Mercoledì calendario

INTRODUZIONE




Nella seconda metà del ”700, periodo di transizione tra vecchio e nuovo, fra tradizione e innovazione, si manifesta un’attenzione particolare, pur carica di ambiguità e contraddittorietà, da parte dello Stato verso l’organizzazione delle scuole pubbliche, sia a livello di studi e di progetti che di interventi e di realizzazioni. L’istruzione pubblica diventa in tal modo una funzione statale; le motivazioni non vanno ricercate in una serie di fortuite circostanze, ma in quel mutato clima politico, culturale ed economico che si ripercosse sull’intera vita sociale. ”Per venticinque anni circa il giurisdizionalismo, il regalismo, il razionalismo, l’illuminismo, il giansenismo stesso, le forze cioè ereditate dalle generazioni precedenti, trovarono un punto di convergenza nella volontà di trasformare i costumi e le leggi”[1].

Il forte incremento demografico e l’intensa espansione economica del XVIII secolo implicano anche una diversa ridistribuzione del potere politico e un mutamento anche delle basi culturali della società. Se per la conservazione dei nuovi equilibri politici si afferma la soluzione accentratrice del potere nelle mani del principe ”illuminato” (assolutismo), posto al vertice dell’organismo sociale, per il rinnovamento e per la modernizzazione della società, una migliore istruzione, nei suoi vari gradi, cominciando da quelli superiori, ai medi e ai bassi, è indicata come il sentiero percorribile per creare una opinione pubblica favorevole agli indirizzi del governo (’sudditi fedeli”) e per sviluppare l’acquisizione di abilità, di saperi e di competenze in modo da porre ognuno, all’interno della propria classe sociale, in grado di essere utile a sé e di conseguenza alla società; ogni individuo, in tal modo, non si sente isolato, ma facente parte di un grande ”corpo”, di un progetto comune, con le proprie funzioni ed in grado di portare il suo piccolo contributo al bene dello Stato, che si identifica nel principe. Solo in questo modo la felicità del principe coincide con quella di tutti i sudditi.

L’istruzione, ritenuta un bene sociale, si trasforma in un ambito privilegiato di trasmissione ”dei meccanismi di riproduzione e di potenziamento della nuova società”[2]; si istituzionalizza come attività pubblica, con i suoi luoghi (le scuole), con il suo linguaggio (la pedagogia), con le sue strutture ed i suoi addetti (i maestri, i dirigenti) e si fa sistema scolastico. Diventa quindi un campo di progetti, di provvedimenti legislativi e amministrativi e di relativi interventi mirati a migliorarla, ”alla luce sia di una teoria generale del governo della cosa pubblica sia di una teoria dell’educazione e della scuola”[3]; da questo momento si può parlare di una nascente politica scolastica a favore del popolo, che si svilupperà lentamente e sarà realizzata solo dopo l’unità d’Italia[4].

In questa nuova dimensione del potere pubblico, il conflitto con quello della Chiesa, o con una parte di essa, è inevitabile. L’intervento del principe, una volta ribadito il proprio ambito di potere sul temporale ed aver chiarito i confini con lo spirituale, più che alla dottrina cristiana, si oppone a certe istituzioni tradizionali, a manifestazioni di pietà e di culto non più ritenute opera di fede o di assistenza, ma forme e luoghi di inutilità e fomentatrici di superstizioni, di fanatismi, non più tollerabili in una società che, in nome della ragione, ha messo al bando l’ignoranza. Lo stesso moltiplicarsi di congregazioni religiose, in un periodo in cui l’utilità sociale di ognuno è una regola perseguita, è ritenuto non un aumento di fedeli impegnati nel bene, ma di persone che non contribuiscono alla ”felicità” degli altri, quando non è visto come un fattore negativo per lo Stato a causa della fedeltà al papa. Sollecitazioni in senso riformistico vengono, ed erano venute, anche da parte del clero più aperto alle nuove istanze culturali, come ad es. da L.A. Muratori: gli ordini religiosi – scriveva – ”son da commendare, perché sommamente utili, e alcuni d’essi anche necessarj. Ma non ci sarà chi giudichi esser bene il moltiplicar troppo questi Ordini in una sola Città o Terra. E lo stesso dico del troppo numero degli Ecclesiastici Secolari. Sarebbe da desiderare, che ne avessimo un discreto numero, e questi di soli ben osservanti della santa lor profession ed esemplari; giacché questo bene non è da sperare, dove è troppo”[5].

Vengono di conseguenza soppressi luoghi pii, congregazioni, con i fondi dei quali sono finanziati gli interventi di attivazione o di riforma dell’istruzione scolastica, in modo che questi beni, come afferma il Bovara, siano effettivamente impiegati nelle finalità per cui originariamente sono sorti, cioè in opere pie: e la scuola, secondo lui, certamente può considerarsi un’opera pia.

La soppressione dei Gesuiti, ammirati, temuti e odiati ad un tempo, tradizionali detentori di gran parte dell’istruzione media e superiore delle nazioni cristiano- cattoliche, si trasforma in una potente accelerazione, ed in parte giustificazione, del massiccio intervento dello Stato in campo scolastico. Probabilmente anche senza questa drastica decisione, l’intervento scolastico statale si sarebbe realizzato, sia pur in modo più graduale. In un certo senso quindi la Dominus ac Redemptor si rivela una concausa, seppur importante e non inaspettata, della riforma scolastica, che più che anticristiana sì presenta come anticuriale e antigesuitica.

Il ruolo del clero subisce una riqualificazione al fine di inculcare nella gente il rispetto per le direttive del governo e una religione priva di estremismi superstiziosi e fanatici. Per la mancanza di fondi adeguati e di personale qualificato il clero rimane tuttavia a dirigere e a fare scuola, anche se alle dipendenze del governo; massiccia diventa la sua presenza nelle scuole di campagne, dove ricopre quasi totalmente anche le funzioni di vigilanza e l’insegnamento diventa un’appendice del lavoro pastorale, a meno che non sia presente qualche laico disposto disposto, fra un lavoro e l’altro, a dar l’istruzione a dei ragazzi[6].

In questa alleanza trono altare, almeno fino alla Rivoluzione francese e durante la Restaurazione, la religione continua ad essere il fondamento della morale e del ”buon” ordine sociale ed in questo senso si rivela utile allo Stato. E’ una religione che, esplicandosi in numerose forme di culto, è volta ad inculcare obbedienza e rispetto a Dio e al Principe, insieme all’accettazione del posto che la natura e la provvidenza assegna a ciascuno; ”fedeli sudditi e buoni cristiani” diventa la finalità condivisa dall’istruzione scolastica e religiosa[7]. Vedere in questa funzionale finalità una limitazione alla formazione dell’uomo in quanto tale e una soggezione della pedagogia alla politica è facile e, dal punto di vista pedagogico, corretto, ma è opportuno considerare come la scuola, diventando un bene sociale all’interno di una macro struttura, partecipi, in modo autonomo ma non indipendente e autosufficiente, alla funzione che la ”società totale” le attribuisce, per cui educa, come ha sempre educato, secondo ”l’utilità sociale storicamente determinata”[8].

La scuola di fine Settecento si sta ritagliando una propria autonomia e non può sottrarsi ad un compito, quale quello della formazione di un modello di uomo, socialmente e politicamente condiviso, che non punta al rivolgimento sociale. L’avere dei ”rudimenti” di istruzione è ormai una esigenza sentita da molte categorie di persone, soprattutto del commercio, dell’artigianato, della piccola borghesia, meno dal mondo contadino, che prima potevano usufruire, ma non tutti e non sempre, di un minimo di possibilità di istruzione non formale e poco strutturata. La riforma di fine Settecento si rivela in tal senso una ”rivoluzione” o l’inizio di una ”rivoluzione”, i cui punti fondamentali possono sintetizzarsi in questo modo:

- Il massiccio intervento dello Stato in campo scolastico, con la promozione di una serie di studi e di indagini sul territorio, di rilevazioni, di progetti che non trovano nessun riscontro nel passato e che sono indice di una mentalità totalmente nuova. Questo comportamento si rivela un primo timido passo, poiché ancora la scuola viene ritenuta un ”atto di generosità” da parte del principe e rientra infatti nelle opere pie, verso il riconoscimento del diritto all’istruzione e all’educazione di ogni persona.

- L’affermarsi di una scuola distinta da quella del latino, in nuce la futura scuola elementare, con l’importanza data alla lingua parlata dalla gente. E’ noto che anche le scuole del leggere, scrivere e far di conto, pubbliche e private, della città e della campagna, insegnavano anche, quando non soprattutto, i rudimenti della grammatica latina ed erano gestite in funzione e a supporto delle scuole successive. Le nuove scuole normali o comuni o triviali sono invece scuole a sé stanti ed in esse si insegnano materie ”indispensabili e necessarie” a tutti gli uomini. Resta il fatto che le scuole normali, per molti anni almeno fino al 1809-1814, raggiungono solo una piccola percentuale dei ragazzi del popolo.

- La nascita graduale di una classe insegnante, con la presenza in lenta ma continua crescita di laici e l’accentuarsi del divario fra quelli di campagna e di città[9]. Mentre prima l’insegnare poteva essere un ripiego, soprattutto a livello elementare, poche volte degno di considerazione, ora lo Stato esige una preparazione certificata da un esame su quello che si intende insegnare e si cominciano a creare i primi corsi di preparazione dei maestri; inizia contemporaneamente la lunga battaglia contro gli insegnanti privati, condannati ma spesse volte tollerati o incoraggiati indirettamente, nella convinzione che senza il loro apporto la scuola pubblica si sarebbe rivelata insufficiente. In realtà per molto tempo questo piano rimane un desiderio a cui spesse volte non si tenta in maniera seria di dare soddisfazione[10]. La mancanza di fondi necessari e di personale preparato porta ad addossare al clero, nell’ambito della ”sistemazione” delle parrocchie, il compito di fare scuola, invogliandolo, almeno nello Stato di Milano, con la prospettiva di benefici e di migliore considerazione sociale.

- L’attenzione ai problemi legati alla didattica e l’aumento delle scuole fanno sorgere un insieme di persone che ruotano attorno all’istituzione scuola con compiti diversi e nuovi: il direttore e il visitatore scolastico, il compilatore di libri per i maestri e per gli alunni, lo stampatore di libri scolastici, l’esperto dei problemi legati all’edilizia scolastica per la ricerca di un luogo più adatto, che non sia la disturbata casa del maestro, con la cura prestata ai nuovi mezzi didattici, come il libro, la lavagna, i banchi, i mobili, le penne, i quaderni.

- Il primo passo verso l’affermazione dell’obbligo dell’istruzione per tutti, distinto dall’obbligo scolastico. I vari interventi legislativi contemplano l’istruzione sia per i maschi che per le femmine, anche se per queste ultime il cammino sarà più lento e complicato[11].

Si può affermare che i problemi che hanno accompagnato la scuola italiana, sintetizzati da F. De Vivo nel principio dell’obbligo scolastico, nel diritto dello Stato ad intervenire al fine di garantire la laicità, nel reclutamento e nella preparazione degli insegnanti, nella frattura fra la scuola classica e la tecnica e nell’insegnamento della religione, siano presenti, tranne l’ultimo che si presenterà ad Italia unita, fin dalla nascita della scuola statale nel periodo delle riforme e si ripresenteranno, con accentuazioni diverse, fino ai nostri giorni[12].

[1] F. VENTURI (a cura di), Illuministi italiani. Tomo III. Riformatori Lombardi Piemontesi Toscani, R. Ricciardi, Milano-Napoli, 1958, p. XII.

[2] G. BONETTA, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Scuola e processi formativi in Italia dal XVIII al XX secolo, Giunti, Firenze, 1997, p. 7

[3] G. GENOVESI, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 7.

[4] A proposito di un piano ideale di pubblica istruzione, scrive G. Scopoli ad inizio Ottocento: ”Quel piano di pubblica istruzione è il più perfetto, che comprende l’istruzione di tutte le Classi de’ Cittadini, in modo che ciascuna di esse ottenga dalle Scuole quelle cognizioni, le quali le sono le più convenienti, senza però che sia vietato ad una Classe di aspirare alle cognizioni delle altre, anche le più elevate”(BCVr, Carteggio Scopoli, 485-1, Idee per un nuovo piano di pubblica istruzione, 1801-1805).

[5] L.A. MURATORI, Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi, Lucca, 1749.

[6] Scriveva nel 1811 il conte A. Scopoli a proposito del problema del reclutamento dei maestri, specialmente per le ragazze: ”I Maestri normali sono nella massima parte ecclesiastici, e ciò torna conto ai Comuni, perché se dovessero pagare una persona, che non avesse altri mezzi di sussistenza, dovrebbero accordarle maggiore stipendio. Non è però molto utile ai Comuni l’avere Maestri Sacerdoti, poiché non possono occuparsi, che dell’istruzione dei Maschi, e la Direzione Generale cerca si promuovere colla minor spesa possibile l’istruzione anche delle fanciulle […] facendo sì, che il maestro maritato divida colla moglie l’istruzione dei fanciulli dell’uno, e dell’altro sesso. Si occupa quindi coi Prefetti di far preferire i Maestri ammogliati ai Celibi, e i Comuni possono dare a tali Maestri qualche altra occupazione con onorario, per esempio, di Scrivano, di Orologiaio, di Organista, etc., secondo la capacità. La Maestra può essere anche Mammana. Niuna difficoltà altronde, ch’eserciti qualche arte relativa ai lavori femminili”(BCVr, Carteggio Scopoli, 491-8, Rapporto sullo stato delle scuole elementari del Regno, 1811).

[7] ”Giusto sarà, che chiunque ama la Pubblica Tranquillità e Pubblico Bene, desideri una perfetta costante armonia fra il sacerdozio e l’Imperio, sicché l’uno lasci intatti i diritti veri e non immaginarj dell’altro, e amendue concordemente cospirino a rendere spiritualmente e temporalmente felici i popoli”(L.A. MURATORI, op. cit., p. 68).

[8] G. BONETTA, op. cit., p. 11.

[9] Scriveva a fine Cinquecento O. Pescetti, preoccupato per il lavoro dei maestri, aperto a tutti anche agli incompetenti: ”Niuna persona d’onore degnerà più di porvi mano, e così il nome, e la persona del maestro […] diverrà in guisa appo ognuno vile, et abbietta, che non troverà alcuno, che d’onore faccia professione, che vestir se ne voglia, e si recherà a li huomini altrettanto a vergogna d’essere chiamati maestri, quanto d’esser chiamati birri, o s’altro v’è più infame titolo; e così il più degno esercizio, che trouvar si possa si ridurrà nella feccia degli huomini, et in quelli, ch’auran ogni vergogna perduta”(O. PESCETTI, Orazione d’Orlando Pescetti dietro al modo dell’instituire la gioventù…, G. Discepolo, Verona, 1582).

[10] Riferisce lo Scopoli nel 1811 a proposito delle scuole private: ”Il numero di queste Scuole è così grande, che in alcun Comune parrebbero non necessarie le scuole pubbliche, se non per i poveri. Ma la Direzione Generale ha sospettato, cge esse siano depositi di fanciulli anziché scuole, e non può credere, che si diano insegnamenti conformi alle massime generali adottate dal Governo”(BCVr, Carteggio Scopoli, op. cit.)..

[11] ”Di tale scuole (per le fanciulle) - affermava il direttore della pubblica istruzione nel 1811 – scarso è il numero ad onta delle cure della Direzione Generale, la quale da due anni non cessa di stimolare i Comuni, perché provvedano all’Educazione anche delle donne”(Idem).

[12] F.DE VIVO, Linee di storia della scuola italiana, III Ediz., La Scuola, Brescia, 1990, p. 40.