Ida Dominijanni, il manifesto 5/01/2010, 5 gennaio 2010
Craxi, i conti che non tornano - «Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono»
Craxi, i conti che non tornano - «Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono». La rivendicazione firmata da Stefania Craxi della perfetta identità fra la persecuzione politico-giudiziaria di cui sarebbe stato vittima suo padre nel ’93 e quella di cui sarebbe vittima oggi Silvio Berlusconi sigla il teorema della perfetta continuità politica fra il leader socialista morto latitante a Hammamet il 19 gennaio 2000 e il Cavaliere che dal 1994 tiene in scacco la politica italiana. E’ un teorema che merita di essere valutato attentamente. Non tanto per l’equazione su cui si basa e che è contestabile punto per punto - uguali le vittime, uguali i magistrati persecutori, uguali i mandanti, uguale il diritto dei due leader di sfuggire al processo -, quanto per la genealogia politica che costruisce. Se c’è un tratto che accomuna Craxi e Berlusconi è precisamente l’assenza, in entrambi, di una genealogia di riferimento: i due «uomini nuovi» - il socialista eccentrico emerso oltre e contro la tradizione socialista, che per primo propose una frattura nella continuità costituzionale, e il Cavaliere venuto dal nulla, che da quindici anni combatte per fratturarla definitivamente - diventano ora i capostipiti di una tradizione politica a venire, di un culto da onorare, di una storia da proseguire? Ovviamente non si tratta di un’invenzione di Stefania Craxi. Delle continuità politiche fra Craxi e Berlusconi, al di là del loro noto legame di amicizia e di sostegno, è fatta la storia dell’ultimo ventennio, ed è piena la saggistica relativa. E fu lo stesso Berlusconi, in occasione del secondo anniversario della morte di Craxi, a farsene dichiaratamente erede e continuatore, celebrando nel leader socialista «l’uomo forte d’Europa», il premier «che sfidò il sindacato classista» e «vide per primo la crisi dell’Urss», il modernizzatore che buttò a mare «le nefandezze del marxismo» , lanciò il made in Italy e fiutò le magnifiche sorti della tv commerciale, il «figlio del sistema di regole della Costituzione» che per primo ebbe l’ardire di proporne la Grande Riforma. Già allora Berlusconi provò a chiudere il cerchio della transizione italiana mettendo in primo piano il genio politico di Craxi e derubricando a peccato veniale «di tutto il sistema» i suoi reati di corruzione. Oggi la strategia si ribalta: in primo piano torna il protagonista della vicenda giudiziaria, ma come vittima. I due lati della figura di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, continuano del resto a non trovare una sistemazione convincente neanche altrove, e in primis fra quegli eredi del P.C.I. indicati a tutt’oggi come i mandanti e i profittatori della «persecuzione giudiziaria» del leader socialista nel ’93 e di Berlusconi oggi. Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del «politico della sinistra», del «rivitalizzatore del Psi», del primo leader ad aver intuito «il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale» dell’Italia, dell’uomo di stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il «capro espiatorio» di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale «mancò allora una seria riflessione». Dal famoso discorso del 29 aprile ’93 in parlamento, quando Craxi sfidò tutti, governo e opposizione, a chiamarsi fuori da un meccanismo che coinvolgeva tutti, a oggi, la linea del principale partito della sinistra è rimasta oscillante fra la criminalizzazione giudiziaria e la rivalutazione politica. In morte di Craxi, lo ammise esplicitamente l’allora presidente della Camera Violante: non c’è pace per lui, disse, «e neanche per noi, che l’abbiamo visto trionfatore prima e sconfitto poi, senza essere ancora riusciti a esaminare con spirito di verità né le ragioni del successo né le cause della disfatta», né «ad affrontare con spirito di verità il rapporto fra legalità, corruzione e democrazia». Due motivi di scacco di non poco conto, che dieci anni dopo rischiano di ripresentarsi pari pari in un Pd che se da un lato non ha risolto il nodo del rapporto fra politica e giustizia, anzi ne è sempre più intrappolato, dall’altro lato non ha risolto il nodo della sua identità politica e programmatica, ed è sempre più intrappolato in una visione mitica della «modernizzazione» craxiana, nel senso di colpa per non averla fatta propria o nell’illusione che bastasse e basti farla propria depurandola dalla corruzione perché funzionasse negli anni Ottanta e funzioni ora. Perché i due lati della medaglia di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, trovassero finalmente una sistemazione coerente è proprio quel mito della modernizzazione che bisognerebbe smontare, procedendo finalmente a un’analisi veritiera del decennio craxiano che nel ’93 non si fece consegnandone alla magistratura il seppellimento e dopo non si è fatta consegnandone a Berlusconi il proseguimento. Su Repubblica di domenica, Guido Crainz ha messo sull’argomento alcuni punti fermi: non si può definire modernizzazione politica quella di un decennio che ha segnato piuttosto l’inizio della crisi della politica, della partecipazione, della vitalità dei partiti, né si possono scindere questi fenomeni dal dilagare della corruzione. Non si può spacciare per modernizzazione economica una politica inflattiva e di indebitamento pubblico. Non si può spacciare per modernizzazione culturale della sinistra un processo di disfacimento del Psi e di chiusura al P.C.I. che furono ben più decisive dell’apertura a Prudono o della felice stagione della rivista Mondoperaio. Tutto vero; ma c’è ancora dell’altro. Sempre più schiacciato sul momento della fine - i mesi drammatici che vanno dalla scoperta di Tangentopoli al lancio delle monetine contro Craxi all’uscita dall’hotel Raphael -, e dunque sul nodo del rapporto fra politica, controllo di legalità e giustizialismo, il lungo decennio craxiano attende ancora un ripensamento e una riconsiderazione complessivi, che renda conto della sua presa di lungo periodo sulla storia italiana e del suo allungarsi nel ventennio successivo, a onta delle volontà di rottura proclamate, all’inizio degli anni Novanta, dai fautori della rivoluzione giudiziaria (fra i quali, giova ricordarlo, c’erano molti di quelli che oggi militano nel campo berlusconiano, a cominciare dall’allora Msi di Gianfranco Fini e dalla Lega: diversamente da quello che sostiene Stefania Craxi, le parti in campo non sono sempre le stesse). Quel lungo decennio fu in realtà più di un quindicennio, cominciò al Midas nel 1976 con l’elezione imprevista di Craxi a segretario di un Psi in declino e si concluse con il suo «esilio» a Hammamet nel ’93: in mezzo, c’è una trasformazione sociale, politica e antropologica dell’Italia, che è una molto impropria scorciatoia definire solo «modernizzazione», sia politica sia economica, e che è contrassegnata da una lunga sequenza di ambivalenze, dello stesso craxismo. Per il suo partito, Craxi non fu un innovatore: fu, finita la breve stagione di Mondoperaio, il passaggio da un partito ancora strutturato, malgrado l’esperienza del primo centrosinistra, sulla militanza e il radicamento sociale a una macchina elettorale, diretta da un capo che fu il primo a sperimentare e volere l’elezione diretta in congresso. Il «partito corsaro», che avrebbe meritoriamente voluto spezzare l’egemonia - e la cappa - Dc-Pci strettasi durante la disgraziata stagione dell’unità nazionale, si trasformò in pochi anni nel partito della governabilità che siglò con la Dc la conventio ad excludendum del P.C.I. e si identificò poi nel Caf. La forza libertaria e garantista, che coraggiosamente si oppose al «fronte della fermezza» durante il sequestro di Aldo Moro, si capovolse rapidamente in una forza d’ordine animata da una rigida ideologia che recitava efficienza e decisione. L’innovazione culturale - l’unica che meriti di essere ricordata - che alla conferenza di Rimini dell’82, protagonista Claudio Martelli, propose di sostituire allo schema di analisi classista e lavorista tradizionale della sinistra quello incentrato sulla coppia meriti-bisogni, ovvero sull’analisi dei ceti emergenti di intellettualità diffusa da un lato e della nuova emarginazione sociale dall’altro, si piegò rapidamente alla logica antioperaia che trionfò nel taglio della scala mobile e alla religione del rampantismo e dell’individualismo competitivo. Il mito della modernità si ridusse all’anticipazione dei luccichii berlusconiani, dalle roboanti scenografie congressuali alla Milano da bere. La rottura del monopolio della tv pubblica, giustamente salutata come una boccata d’aria da quanti - non il Pci - avevano intuito quello che la rivoluzione dei media e dell’informazione stava preparando per la società di massa, si risolse nei provvedimenti a favore di Silvio Berlusconi, delle sue tv e del suo modello culturale. Questa parabola parla ancora di noi, di quello che è venuto dopo Craxi, in mancanza di una elaborazione del craxismo. E annuncia quello che potrà accadere in futuro, dopo Berlusconi, in mancanza di una elaborazione del berlusconismo. Il che dice non solo e non tanto delle continuità fra Craxi e Berlusconi, ma di coloro che avrebbero dovuto contrastarli. Ida Dominijanni «Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono». La rivendicazione firmata da Stefania Craxi della perfetta identità fra la persecuzione politico-giudiziaria di cui sarebbe stato vittima suo padre nel ’93 e quella di cui sarebbe vittima oggi Silvio Berlusconi sigla il teorema della perfetta continuità politica fra il leader socialista morto latitante a Hammamet il 19 gennaio 2000 e il Cavaliere che dal 1994 tiene in scacco la politica italiana. E’ un teorema che merita di essere valutato attentamente. Non tanto per l’equazione su cui si basa e che è contestabile punto per punto - uguali le vittime, uguali i magistrati persecutori, uguali i mandanti, uguale il diritto dei due leader di sfuggire al processo -, quanto per la genealogia politica che costruisce. Se c’è un tratto che accomuna Craxi e Berlusconi è precisamente l’assenza, in entrambi, di una genealogia di riferimento: i due «uomini nuovi» - il socialista eccentrico emerso oltre e contro la tradizione socialista, che per primo propose una frattura nella continuità costituzionale, e il Cavaliere venuto dal nulla, che da quindici anni combatte per fratturarla definitivamente - diventano ora i capostipiti di una tradizione politica a venire, di un culto da onorare, di una storia da proseguire? Ovviamente non si tratta di un’invenzione di Stefania Craxi. Delle continuità politiche fra Craxi e Berlusconi, al di là del loro noto legame di amicizia e di sostegno, è fatta la storia dell’ultimo ventennio, ed è piena la saggistica relativa. E fu lo stesso Berlusconi, in occasione del secondo anniversario della morte di Craxi, a farsene dichiaratamente erede e continuatore, celebrando nel leader socialista «l’uomo forte d’Europa», il premier «che sfidò il sindacato classista» e «vide per primo la crisi dell’Urss», il modernizzatore che buttò a mare «le nefandezze del marxismo» , lanciò il made in Italy e fiutò le magnifiche sorti della tv commerciale, il «figlio del sistema di regole della Costituzione» che per primo ebbe l’ardire di proporne la Grande Riforma. Già allora Berlusconi provò a chiudere il cerchio della transizione italiana mettendo in primo piano il genio politico di Craxi e derubricando a peccato veniale «di tutto il sistema» i suoi reati di corruzione. Oggi la strategia si ribalta: in primo piano torna il protagonista della vicenda giudiziaria, ma come vittima. I due lati della figura di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, continuano del resto a non trovare una sistemazione convincente neanche altrove, e in primis fra quegli eredi del P.C.I. indicati a tutt’oggi come i mandanti e i profittatori della «persecuzione giudiziaria» del leader socialista nel ’93 e di Berlusconi oggi. Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del «politico della sinistra», del «rivitalizzatore del Psi», del primo leader ad aver intuito «il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale» dell’Italia, dell’uomo di stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il «capro espiatorio» di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale «mancò allora una seria riflessione». Dal famoso discorso del 29 aprile ’93 in parlamento, quando Craxi sfidò tutti, governo e opposizione, a chiamarsi fuori da un meccanismo che coinvolgeva tutti, a oggi, la linea del principale partito della sinistra è rimasta oscillante fra la criminalizzazione giudiziaria e la rivalutazione politica. In morte di Craxi, lo ammise esplicitamente l’allora presidente della Camera Violante: non c’è pace per lui, disse, «e neanche per noi, che l’abbiamo visto trionfatore prima e sconfitto poi, senza essere ancora riusciti a esaminare con spirito di verità né le ragioni del successo né le cause della disfatta», né «ad affrontare con spirito di verità il rapporto fra legalità, corruzione e democrazia». Due motivi di scacco di non poco conto, che dieci anni dopo rischiano di ripresentarsi pari pari in un Pd che se da un lato non ha risolto il nodo del rapporto fra politica e giustizia, anzi ne è sempre più intrappolato, dall’altro lato non ha risolto il nodo della sua identità politica e programmatica, ed è sempre più intrappolato in una visione mitica della «modernizzazione» craxiana, nel senso di colpa per non averla fatta propria o nell’illusione che bastasse e basti farla propria depurandola dalla corruzione perché funzionasse negli anni Ottanta e funzioni ora. Perché i due lati della medaglia di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, trovassero finalmente una sistemazione coerente è proprio quel mito della modernizzazione che bisognerebbe smontare, procedendo finalmente a un’analisi veritiera del decennio craxiano che nel ’93 non si fece consegnandone alla magistratura il seppellimento e dopo non si è fatta consegnandone a Berlusconi il proseguimento. Su Repubblica di domenica, Guido Crainz ha messo sull’argomento alcuni punti fermi: non si può definire modernizzazione politica quella di un decennio che ha segnato piuttosto l’inizio della crisi della politica, della partecipazione, della vitalità dei partiti, né si possono scindere questi fenomeni dal dilagare della corruzione. Non si può spacciare per modernizzazione economica una politica inflattiva e di indebitamento pubblico. Non si può spacciare per modernizzazione culturale della sinistra un processo di disfacimento del Psi e di chiusura al P.C.I. che furono ben più decisive dell’apertura a Prudono o della felice stagione della rivista Mondoperaio. Tutto vero; ma c’è ancora dell’altro. Sempre più schiacciato sul momento della fine - i mesi drammatici che vanno dalla scoperta di Tangentopoli al lancio delle monetine contro Craxi all’uscita dall’hotel Raphael -, e dunque sul nodo del rapporto fra politica, controllo di legalità e giustizialismo, il lungo decennio craxiano attende ancora un ripensamento e una riconsiderazione complessivi, che renda conto della sua presa di lungo periodo sulla storia italiana e del suo allungarsi nel ventennio successivo, a onta delle volontà di rottura proclamate, all’inizio degli anni Novanta, dai fautori della rivoluzione giudiziaria (fra i quali, giova ricordarlo, c’erano molti di quelli che oggi militano nel campo berlusconiano, a cominciare dall’allora Msi di Gianfranco Fini e dalla Lega: diversamente da quello che sostiene Stefania Craxi, le parti in campo non sono sempre le stesse). Quel lungo decennio fu in realtà più di un quindicennio, cominciò al Midas nel 1976 con l’elezione imprevista di Craxi a segretario di un Psi in declino e si concluse con il suo «esilio» a Hammamet nel ’93: in mezzo, c’è una trasformazione sociale, politica e antropologica dell’Italia, che è una molto impropria scorciatoia definire solo «modernizzazione», sia politica sia economica, e che è contrassegnata da una lunga sequenza di ambivalenze, dello stesso craxismo. Per il suo partito, Craxi non fu un innovatore: fu, finita la breve stagione di Mondoperaio, il passaggio da un partito ancora strutturato, malgrado l’esperienza del primo centrosinistra, sulla militanza e il radicamento sociale a una macchina elettorale, diretta da un capo che fu il primo a sperimentare e volere l’elezione diretta in congresso. Il «partito corsaro», che avrebbe meritoriamente voluto spezzare l’egemonia - e la cappa - Dc-Pci strettasi durante la disgraziata stagione dell’unità nazionale, si trasformò in pochi anni nel partito della governabilità che siglò con la Dc la conventio ad excludendum del P.C.I. e si identificò poi nel Caf. La forza libertaria e garantista, che coraggiosamente si oppose al «fronte della fermezza» durante il sequestro di Aldo Moro, si capovolse rapidamente in una forza d’ordine animata da una rigida ideologia che recitava efficienza e decisione. L’innovazione culturale - l’unica che meriti di essere ricordata - che alla conferenza di Rimini dell’82, protagonista Claudio Martelli, propose di sostituire allo schema di analisi classista e lavorista tradizionale della sinistra quello incentrato sulla coppia meriti-bisogni, ovvero sull’analisi dei ceti emergenti di intellettualità diffusa da un lato e della nuova emarginazione sociale dall’altro, si piegò rapidamente alla logica antioperaia che trionfò nel taglio della scala mobile e alla religione del rampantismo e dell’individualismo competitivo. Il mito della modernità si ridusse all’anticipazione dei luccichii berlusconiani, dalle roboanti scenografie congressuali alla Milano da bere. La rottura del monopolio della tv pubblica, giustamente salutata come una boccata d’aria da quanti - non il Pci - avevano intuito quello che la rivoluzione dei media e dell’informazione stava preparando per la società di massa, si risolse nei provvedimenti a favore di Silvio Berlusconi, delle sue tv e del suo modello culturale. Questa parabola parla ancora di noi, di quello che è venuto dopo Craxi, in mancanza di una elaborazione del craxismo. E annuncia quello che potrà accadere in futuro, dopo Berlusconi, in mancanza di una elaborazione del berlusconismo. Il che dice non solo e non tanto delle continuità fra Craxi e Berlusconi, ma di coloro che avrebbero dovuto contrastarli. Ida Dominijanni