Giancarlo De Cataldo, lཿUnità 05/01/2010, 5 gennaio 2010
L’ERGASTOLO DI GRAVIANO
Anche i migliori hanno scambiato l’estinzione della pena dell’isolamento diurno, applicata al boss Graviano in conseguenza degli ergastoli patiti, per un ”premio” incassato in cambio del silenzio sulle rivelazioni di Spatuzza. Ma non è così: la legge impone un tetto massimo alla pena (gravosa) dell’isolamento, e quando questo termine scade, la pena è espiata. Restano gli ergastoli, e resta il ”41-bis”, che non è pena, ma tutt’altra cosa. Il fatto è che da anni, ormai, in Italia discettano della pena opinionisti, intellettuali, maestri del pensiero tutti degnissimi e meritevoli, ma, ahimé, sovente disinformati. Certe locuzioni, ormai d’uso comune, hanno perso il senso originario diventando sinonimo di tutt’altro: ”certezza della pena” non significa più ”consapevolezza del reo di andare incontro al giusto castigo in caso di violazione della legge” - come dire: se sbaglio, pago, quindi sto attento a non sbagliare - ma ”pena detentiva immodificabile”, come dire: quei pochi che acchiappo, qualunque cosa abbiano fatto, non me li lascio scappare. Tutto il contrario di quanto stabilisce, a proposito della pena, la Costituzione: ma la Costituzione, l’abbiamo capito, è per tanti, troppi, un optional, se non un fastidioso ingombro. «Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati; è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico, e quindi ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi a istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere commisurati alla necessità di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta». Rileggo con una certa amarezza questa lucida frase di Aldo Moro (conclude l’interessante saggio di Stefano Anastasia e Franco Corleone, «Contro l’ergastolo», Ediesse edizioni) e rimpiango gli statisti di una volta.